Nel campo dell’arte, l’impressionismo è una corrente che ha donato all’umanità grandi capolavori nei vari settori in cui si è affermata. Basti pensare ai nomi di alcuni dei suoi più illustri esponenti per rendersene conto: Monet, Degas e Renoir nella pittura; Rodin nella scultura; Debussy, Satie, Ravel e Scriabin nella musica.
Con lo stesso nome – “impressionismo” — definiamo invece in politica, non una corrente, bensì una modalità d’analisi della realtà da parte di chi si lascia “impressionare” da uno o più eventi (che, in generale, pur avendo un certo rilievo, sono sovrastrutturali o accessori o di minor peso nell’insieme di tutti gli elementi che contrassegnano una determinata e molto più complessa situazione in un dato momento storico), facendoli assurgere a elemento centrale e nucleo determinante e caratterizzante dell’analisi stessa, che, per ciò solo, dunque, si rivela errata, in quanto si fonda sulla lettura solo di alcuni frammenti della realtà, presentati però come fossero “quella” realtà stessa.
Il fatto è che, quando a dare una lettura impressionista di una data situazione sono organizzazioni che, per il fatto di definirsi rivoluzionarie, vogliono porsi alla testa delle masse per guidarle verso la rivoluzione, c’è il serio rischio di condurre invece quelle stesse masse verso una rovinosa sconfitta.
È il caso del Brasile, dove un’organizzazione che si richiama al marxismo rivoluzionario, muovendo dalla pur gigantesca manifestazione svoltasi pochi giorni fa (e assolutizzandone l’impatto rispetto al contesto generale, senza tener conto però dei tanti altri elementi che vanno in una diversa direzione), sta presentando la situazione che quel Paese sta vivendo come l’anticamera di una situazione rivoluzionaria.
L’articolo che qui presentiamo fornisce gli strumenti teorici per contrastare siffatte analisi impressionistiche ed evitare che esse possano condurre la classe operaia alla sconfitta. Ma ci ripromettiamo di tornare nei prossimi giorni sull’attuale realtà del Brasile con un testo più approfondito.
Frattanto, buona lettura.
La redazione del Blog
Riflessioni per un’analisi marxista dei rapporti di forza
Valério Arcary
Nel terzo volume della biografia di León Trotsky, Il profeta esiliato, Isaac Deutscher scriveva, a proposito della “teoria dell’offensiva”, basata sull’analisi della “crisi finale” all’inizio degli anni 30 del XX secolo – dopo il cataclisma del 1929 – in opposizione alla tattica del fronte unico:
«Né … il febbrile ultra radicalismo [del c.d. “terzo periodo” (Ndt)[1]] ostacolava lo sviluppo del comunismo nel mondo meno efficacemente del precedente opportunismo, e aveva alla base la stessa cinica indifferenza burocratica per gli interessi internazionali della classe lavoratrice.
Ora, come prima, Trotsky sosteneva che tutta l’epoca iniziatasi con la prima guerra mondiale e la Rivoluzione russa segnava il declino del capitalismo, che era stato scosso alle fondamenta. Ciò non significava, tuttavia, che l’edificio fosse sul punto di crollare repentinamente.
La decadenza di un sistema sociale non è mai un unico processo di crollo economico o una serie ininterrotta di situazioni rivoluzionarie. Nessun collasso poteva quindi considerarsi a priori “ultimo e definitivo”. Anche nella decadenza il capitalismo doveva avere i suoi alti e bassi (sebbene gli alti tendessero a divenire sempre più brevi e incerti e i bassi sempre più rapidi e rovinosi). Il ciclo economico, per quanto mutato fosse dal tempo di Marx, seguiva ancora il solito corso non soltanto dall’espansione alla recessione, ma anche dalla recessione all’espansione. Era quindi assurdo annunciare che la borghesia era giunta “obiettivamente” in un vicolo cieco: non esisteva vicolo cieco da cui una classe abbiente non avrebbe cercato di uscire lottando con tutte le sue forze; e il fatto che vi riuscisse o meno dipendeva non tanto da semplici fattori economici quanto dall’equilibrio delle forze politiche, che poteva essere modificato in un senso o nell’altro dalla qualità della direzione comunista.
Prevedere un “ininterrotto flusso crescente della marea rivoluzionaria”, individuare “elementi di guerra civile” in quasi tutti gli scioperi turbolenti e proclamare che era giunto il momento di passare dall’azione difensiva all’offensiva e all’insurrezione armata, significava mancare del tutto al compito direttivo e andare incontro a una sicura sconfitta»[2].
Il tema dell’articolazione dei fattori oggettivi e soggettivi nell’analisi dei rapporti sociali di forza tra le classi è più complicato di quanto possa sembrare. Una situazione rivoluzionaria esige, evidentemente, condizioni oggettive. Ma esse possono essere mature da decenni, possono persino essersi imputridite tanto sono maturate, senza che si sia aperta una situazione rivoluzionaria.
Un passaggio di Deutscher, che riprende Trotsky, aiuta a chiarire questo concetto:
«Analizzando il rapporto intercorrente fra i fattori “costanti” e “variabili”, Trotsky dimostra che le rivoluzioni non avvengono soltanto perché le istituzioni politiche e sociali sono ormai vecchie e superate e esigono un rinnovamento, ma anche perché molti milioni di persone si sono rese conto per la prima volta di tale esigenza. La struttura sociale era matura per una rivoluzione da molto prima del 1917, ma le masse lo compresero soltanto nel 1917. Così, per uno strano paradosso, la causa profonda della rivoluzione non risiede nella nobiltà della mente umana, ma nel suo inerte conservatorismo. Gli uomini si sollevano en masse soltanto quando si accorgono all’improvviso di essere intellettualmente arretrati e vogliono rimettersi subito in pari. Questa è la lezione che si ricava dalla Storia[3]: nessun grande rivolgimento deriva automaticamente dalla decadenza di un vecchio ordine costituito; gli uomini possono vivere per generazioni sotto un regime decadente senza rendersene conto. Ma quando se ne accorgono sotto l’impulso di qualche catastrofe, come una guerra o un crollo economico, danno libero sfogo alla disperazione, alla speranza e all’attività»[4]
Uno degli aspetti che preoccupava Trotsky era separare il concetto di crisi rivoluzionaria dalle vecchie polemiche sull’inesorabilità della “crisi finale” e l’assillo di educare le nuove generazioni marxiste intorno all’esperienza russa per cui la crisi è un processo politico e, pertanto, conserva sempre una relativa autonomia, anche temporale, relativamente ai processi economici, anche quando questi assumono la forma di un cataclisma: la crisi economica può essere gravissima, e tuttavia può non aprirsi una situazione rivoluzionaria.
La crisi economica è la condizione oggettiva per la crisi, ma non sufficiente. L’altro richiamo, altrettanto se non addirittura più importante del primo, ricorda che l’analisi dei rapporti di forza deve considerare qual è la situazione di tutte le classi della società. Analisi settarie, sia per euforia che per scoraggiamento, non consentono una comprensione di qual è la situazione. Nel breve testo “Che cos’è una situazione rivoluzionaria?” Trotsky scrive:
«Per analizzare una situazione (…), è necessario distinguere tra le condizioni economiche e sociali di una situazione rivoluzionaria e la situazione rivoluzionaria stessa. Le condizioni economiche e sociali di una situazione rivoluzionaria si verificano, parlando in generale, quando le forze produttive di un Paese sono in decadenza; quando diminuisce sistematicamente il peso del Paese capitalista nel mercato mondiale e anche le entrate delle classi si riducono sistematicamente; quando la disoccupazione non è più semplicemente la conseguenza di una fluttuazione congiunturale, bensì un male sociale permanente tendente ad aumentare (…) Ma non dobbiamo dimenticare che la situazione rivoluzionaria la definiamo politicamente, non solo sociologicamente, e qui subentra il fattore soggettivo, che non consiste solo nel problema del partito del proletariato, ma è una questione di coscienza di tutte le classi»[5].
Il tema della discrepanza e del disallineamento tra la maturazione sproporzionata dei fattori oggettivi e soggettivi è tra le maggiori difficoltà di comprensione di ciò che è una situazione rivoluzionaria, o anche prerivoluzionaria. Per ovvie ragioni, le idee rivoluzionarie possono trasformarsi in forza materiale – cioè fondersi con la volontà di milioni – solo nel vivo di una situazione rivoluzionaria.
In situazioni difensive o reazionarie, le masse non solo non sono recettive rispetto a proposte rivoluzionarie, ma il più delle volte diffidano persino delle proposte di lotta più moderate e delle alternative più riformiste, tanto basso è il livello di fiducia che ripongono nelle loro proprie forze. A rigore, idee radicali possono conquistare influenza sulla maggioranza solo quando si apre una crisi rivoluzionaria. Ma le crisi rivoluzionarie sono rare.
Dunque, la diaspora dei rivoluzionari marxisti rispetto alla classe che pretendono di rappresentare è inesorabile finché la società non viene scossa da acute lotte di classe. Come si può agevolmente concludere, questo allontanamento ha prodotto immensi costi politici per le correnti rivoluzionarie. Si è tradotto in innumerevoli errori “impressionisti” di valutazione delle possibilità realmente esistenti. Ha sempre sottoposto le correnti rivoluzionarie a terribili pressioni che si sono espresse o nella diminuzione della vigilanza, nell’allentamento della tensione necessaria per una grande attesa, quando è stata sottovalutata la realtà; oppure in un’ubriacatura in relazione alle reali possibilità della situazione politica, una specie di “doping” euforico che sopravvaluta l’urgenza delle lotte, nel caso opposto.
Nulla può essere più crudele per una tendenza rivoluzionaria del non riconoscere una situazione rivoluzionaria quando questa si sviluppa sotto i suoi occhi. Ma l’errore inverso può essere ancora più fatale: la “vanagloria di partito” di fronte a una situazione ancora immatura prepara il terreno a grandi disillusioni e demoralizzazioni.
Note
[1] Nel 1928, l’analisi del Comintern si fondò su una lettura completamente errata della realtà internazionale, secondo cui, dopo un primo periodo (1917‑1924) di crisi del capitalismo e ascesa rivoluzionaria e un secondo (1925‑1928) di sua stabilizzazione, si apriva una nuova e più imponente fase di ascesa rivoluzionaria (appunto, il “terzo periodo”) in cui i partiti riformisti e socialisti rappresentavano un nemico del proletariato, in quanto freno delle lotte. Questa teorizzazione prendeva le mosse da un testo di Stalin in cui la socialdemocrazia veniva definita «l’ala moderata del fascismo», con la conseguenza che «queste due organizzazioni non si escludono reciprocamente, anzi sono complementari. Esse non sono antitetiche, sono gemelle» (J. Stalin, “La situazione internazionale”, in Obras, vol. VI (1924), pp. 96 e ss., ediz. digitalizzata all’indirizzo http://tiny.cc/wcy0jy; v. anche P. Broué, História da Internacional comunista, Editora Instituto José Luís e Rosa Sundermann, 2007, vol. I, p. 660). Da questa stolta equiparazione alla definizione di “socialfascisti” dei socialisti il passo fu breve e avrebbe poi avuto conseguenze tragiche: di fronte all’avanzata del nazismo in Germania, se i comunisti tedeschi si fossero alleati in un fronte unico con il potente partito socialdemocratico, certamente gli eventi avrebbero preso tutt’altra piega. La suicida tattica del “terzo periodo” – che solo Trotsky denunciò e vanamente tentò di contrastare – portò invece alla disfatta senza alcuna resistenza del pur gigantesco e organizzato proletariato tedesco. Per un’analisi approfondita della tattica del “terzo periodo”, L. Trotsky, “Il ‘terzo periodo’ degli errori dell’Internazionale comunista” (http://tiny.cc/uqyx8x). Per un approfondimento più generale sulle tragiche conseguenze dell’applicazione di questa tattica ultrasinistra, L. Trotsky, I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali, 1924‑1940, Giulio Einaudi Editore, 1970, pp. 301 e ss.; L. Trotsky, La Terza Internazionale dopo Lenin, Schwarz editore, 1957, pp. 241 e ss.; L. Trotsky, Revolucão e contrarrevolucão na Alemanha, Editora Instituto José Luís e Rosa Sundermann, 2011.
[2] I. Deutscher, Il profeta esiliato. Trotsky 1929‑1940, Longanesi, 1965, pp. 67‑68.
[3] Qui Deutscher intende l’opera di Trotsky, Storia della rivoluzione russa (Ndt).
[4] I. Deutscher, op. cit., p. 303.
[5] L. Trotsky, “¿Qué es una situación revolucionaria?”, 17 novembre 1931, digitalizzato all’indirizzo http://tiny.cc/y550jy.