Come avevamo anticipato, iniziamo, con l’articolo che presentiamo oggi, la pubblicazione in italiano dei lavori previsti nel piano editoriale della rivista Jacobin Magazine per commemorare il centenario della rivoluzione russa dell’ottobre 1917.
In questo testo, Todd Chretien analizza la dinamica ascendente del movimento rivoluzionario russo prima della rivoluzione di febbraio.
Buona lettura.
La redazione del Blog
Prima del febbraio
La rivoluzione di febbraio scoppiò cento anni fa e spazzò via una monarchia sanguinaria
Todd Chretien
«Noi vecchi non vedremo forse le battaglie decisive dell’imminente rivoluzione», avvertiva Lenin in un rapporto per un gruppo di giovani svizzeri in occasione del dodicesimo anniversario della rivoluzione sconfitta del 1905. La giustapposizione delle sue osservazioni e la caduta, solo sei settimane dopo, dello Zar Nicola II creò le condizioni per la classica battuta del movimento marxista: “non attardarti nella protesta, perché la rivoluzione può iniziare!”.
Ma il suo testo rende chiaro che, a quel tempo, Lenin era consapevole che la situazione politica nella sua madrepatria sarebbe potuta esplodere in qualsiasi momento. Per trecento anni, la dinastia dei Romanov aveva governato la Russia – a quell’epoca un impero gigantesco in cui i russofoni erano una minoranza – con il pugno di ferro.
Lungi dal vivacchiare nell’isolamento, gli zar posero il loro sigillo reazionario sull’Europa occidentale, fornendo grandi eserciti contadini per sostenere la monarchia e la reazione contro i movimenti democratici e nazionalisti dalla rivoluzione francese del 1789 in poi. I Romanov riuscirono persino a guadagnare il primo posto nella lista dei nemici mortali nell’incipit del Manifesto Comunista. Eppure, agli albori del XX secolo quell’impero venne scosso alle fondamenta.
Nella sua Storia della Rivoluzione russa, León Trotsky spiega la volatilità della società russa, sottolineando che lo sviluppo economico globale si produce necessariamente ad un ritmo diseguale. Il trono di Nicola II poggiava su una miriade di territori e popoli – un piccolo esempio di ciò lo ritroviamo nel suo titolo ufficiale: “Imperatore e autocrate di tutte le Russie, Mosca, Kiev, Vladimir, Novgorod, zar di Kazan, zar di Astrakan, zar di Polonia, zar della Siberia … e granduca di Smolensk, Lituania … e via dicendo”.
In primo luogo, ciò che è più importante, lo zar era il più grande proprietario terriero nella classe dei baroni della terra che erano sopravvissuti ai loro omologhi feudali dell’Europa occidentale per un secolo o più – la servitù fu abolita solo nel 1861. Questa classe di trentamila aristocratici possedeva circa 765 milioni di chilometri quadrati (le proprietà avevano una dimensione media di 21,85 chilometri quadrati), cioè una quantità di terra maggiore di quella che potevano avere, tutti insieme, cinquanta milioni di contadini poveri o medi.
Già questi dati rappresentavano di per sé un focolaio per la rivolta agraria pronto ad esplodere, ma costituivano anche la dimostrazione del crescente divario tra la capacità produttiva dell’Europa occidentale in processo di industrializzazione e quella della Russia agraria. Preoccupato che l’arretratezza tecnologica potesse porre fine alla sua potenza militare, lo zar ottenne dalle banche francesi e britanniche il sostegno per finanziare un esercito moderno e altamente centralizzato e un’industria metallurgica centrata in San Pietroburgo e molti altri luoghi. Alcune delle più grandi fabbriche nel mondo sorsero su suolo russo e concentrarono al loro interno una nuova classe fatta di persone che non avevano nulla da vendere se non la propria forza‑lavoro. Nel suo scritto datato 1899, Sviluppo del capitalismo in Russia, Lenin stimava che già nel 1890 vi erano dieci milioni di lavoratori salariati nel Paese.
Lo zar cercò di consolidare questa “amalgama” con la frusta. Le bande antisemite, conosciute col nome di Centurie Nere, si aggiravano nelle campagne terrorizzando gli ebrei, il nazionalismo gran russo impediva l’uso delle lingue locali nell’insegnamento e gli scioperi venivano repressi con la forza militare. E nella speranza di guadagnare uno sbocco sul mare nella costa occidentale soffiando sul fuoco del patriottismo, nel 1904 la corona dichiarò guerra al Giappone, col risultato però di risvegliare ben presto l’impeto dell’opposizione interna a causa della superiorità dell’equipaggiamento e della strategia militare dei giapponesi.
Il 9 gennaio, 1905, centinaia di migliaia di lavoratori, studenti e poveri marciarono dietro un prete, Padre Gapon, implorando lo zar di alleggerire il loro fardello. Vennero accolti da baionette e proiettili, e il sangue delle centinaia di morti scorse per le strade.
La “Prova generale” del 1905, come l’episodio è poi rimasto conosciuto, provocò una vasta deflagrazione sociale: contadini contro proprietari terrieri, lavoratori contro padroni, e praticamente tutto il Paese (compresi alcuni settori della classe media, e perfino qualche capitalista) contro la monarchia.
La situazione si era appena placata quando i marinai della corazzata Potemkin si ammutinarono, i contadini bruciarono palazzi in un settimo delle province e una nuova espressione si fece strada nella coscienza della sinistra internazionale: secondo la definizione di Lenin «si è formata una organizzazione di massa peculiare, il famoso Soviet dei deputati operai, che riunisce i delegati di tutte le fabbriche».
Rosa Luxemburg – lei stessa uno dei fondatori della socialdemocrazia del Regno di Polonia e Lituania – teorizzava una generalizzazione al di là delle condizioni russe, facendosi araldo dello «sciopero generale [come] il primo, naturale impulso di ogni grande lotta rivoluzionaria del proletariato».
Nel bel mezzo della rivoluzione, sbocciò la sinistra socialista. Negli anni che precedettero il famoso congresso del 1903 del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (Posdr), in cui bolscevichi e menscevichi, dapprima uniti si separarono – oltre a complicati negoziati con significative organizzazioni di ebrei, polacchi, finlandesi e di altri raggruppamenti socialisti su basi nazionali – si contavano forse circa diecimila affiliati sostenitori delle varie fazioni. Al cosiddetto Congresso dell’Unità, nella primavera del 1906, aderirono decine di migliaia di persone, e al Congresso del Posdr (comprese le sue sezioni nazionali) del 1907, nonostante la brutale repressione i membri salirono a quasi 150.000.
Lo zar era così terrorizzato che si risolse a fare una concessione alla rivoluzione, una sorta di parlamento fantoccio chiamato Duma. In un primo momento, ai lavoratori urbani non era neanche riconosciuto il diritto di voto, anche se il corpo elettorale venne in seguito modificato nel senso che era eletto un delegato per ogni duemila proprietari terrieri, mentre per i lavoratori la proporzione era di uno a novantamila. Queste briciole erano allo stesso tempo più di quanto Nicola II volesse concedere e meno di quanto servisse per sedare la rivoluzione, sicché lo Stato trasformò la Russia in un cimitero: in quindicimila furono giustiziati, con ventimila feriti e quarantacinquemila esuli. Il sangue spense il fuoco per qualche tempo.
Nei primi mesi del 1912, gli scioperi aumentarono di nuovo fino a quando il tappo saltò in una città di miniere d’oro siberiana chiamata Lena, dove le truppe zariste abbatterono centinaia di scioperanti. La classe operaia risorse come una fenice dalle ceneri, i partiti socialisti tornarono a crescere e gli scioperi proliferarono. Nel 1914, il giornale socialista Pravda aveva una tiratura di 30‑40.000 copie al giorno in un Paese composto in maggioranza da analfabeti.
L’estate del 1914 fu la testimonianza di una Russia tesa allo spasimo, fino al punto di rottura: lo status quo era diventato insostenibile. Nicola II dichiarò guerra alla Germania il 19 luglio 1914. Solo che questa volta, invece di un conflitto limitato con il Giappone sul suo confine orientale, la guerra con la Germania e l’impero austroungarico portò la fame e la pestilenza alle porte della monarchia.
Tuttavia, nei primi giorni di guerra, un’ondata di entusiasmo patriottico venne in sostegno della politica dello zar. Centinaia di migliaia di ragazzi e giovani contadini si precipitarono ad arruolarsi nell’esercito e i gruppi nazionalisti imperversavano nelle piazze di città e paesi.
Ma tutti i conflitti che avevano portato al 1905 ben presto tornarono a ribollire. La Grande Guerra restituì alle masse russe cumuli di cadaveri in quantità pressoché impossibile da immaginare. La prima guerra mondiale presentò lo spettacolo del sistema sociale più arretrato e sottosviluppato a livello continentale immerso fino al collo in una lotta a morte con l’economia industriale più avanzata del mondo. I risultati furono terrificanti.
Tre milioni di soldati dell’esercito imperiale zarista morirono, altri quattro milioni rimasero feriti e circa tre milioni di civili perirono per cause legate alla guerra su una popolazione di 175 milioni di abitanti. Di fronte alla tecnologia militare tedesca, lo zar schierò centinaia di migliaia di soldati precariamente armati e male attrezzati inviandoli a morte certa. Durante gli inverni del 1915, 1916 e 1917, decine di migliaia di soldati morirono nelle loro trincee per congelamento.
Nel frattempo, la corte reale sprofondava in nuovi meandri di dissolutezza. Un prete mistico, chiamato Grigori Rasputin, era riuscito ad assumere una tale influenza sulla zarina Alexandra da chiedere che il marito punisse tutti i minimi segnali di slealtà, come aveva fatto Ivan il Terribile. La sua influenza fu tale che gli aristocratici russi lo uccisero, nella speranza di riguadagnare le simpatie di Nicola II e riprendere il controllo della sua politica di guerra. Dopo essersi abbeverati per un paio di secoli alla fonte reale, i baroni ora temevano che sarebbero stati tutti avvelenati dal suo cadavere politico in decomposizione. Come riporta Tsuyoshi Hasegawa, la coppia reale «ha rifiutato di comprendere il mondo esterno».
Come nel 1905, le rivolte contadine aumentarono man mano che la guerra si trascinava, ma questa volta si presentavano in una nuova forma: quella, cioè, del conflitto tra gli ufficiali aristocratici e i soldati contadini in trincea. Ogni volta che un ufficiale ordinava un assalto suicida contro il fuoco tedesco ciò che era in gioco non erano solo le vite di questi soldati delle campagne, ma anche il futuro delle famiglie che dipendeva dal ritorno a casa di quei figli perché provvedessero all’assistenza e al lavoro. Inoltre, per alimentare l’esercito veniva sottratto il sostentamento alle famiglie contadine e le sementi per le colture dell’anno seguente.
Forse Nicola II, o per lo meno la monarchia, sarebbero sopravvissuti alla crescente rabbia dei contadini, alle disastrose perdite militari e al malcontento all’interno della loro stessa classe. Ma un nemico ancora più potente stava nascendo. Poiché, come la guerra riempiva le trincee di sangue, così riempiva San Pietroburgo di operai. La stessa classe operaia che aveva lottato contro il regime fino all’impasse del 1905 e che ne aveva terribilmente patito le conseguenze, ora veniva chiamata a produrre e distribuire ogni fucile, ogni proiettile, ogni granata, ogni vagone ferroviario da cui dipendeva la guerra dello zar. Peggio ancora, Nicola II non aveva altra scelta se non rafforzare questo avversario.
Hasegawa riferisce che tra il 1914 e il 1917 il numero di lavoratori a San Pietroburgo crebbe da 242.600 a 392.000 – qualcosa come il 62% – con le donne che rappresentavano un quarto di tutti i lavoratori. Gli scioperi erano diminuiti nei primi giorni di patriottismo di guerra: ad esempio, prima della guerra, nel 1914, circa 110.000 lavoratori avevano scioperato per commemorare la Domenica di Sangue, mentre invece il 9 gennaio 1915 solo 2.600 si fermarono. Ma non appena lo sforzo bellico crollò, gli scioperi proliferarono. Nei sei mesi tra il settembre 1916 e il febbraio 1917, circa 589.351 lavoratori incrociarono le braccia e circa l’80% di loro partecipò a scioperi politici.
Inoltre, nel pieno di questo movimento di massa, le organizzazioni socialiste svilupparono tenacemente una lunga battaglia per impiantarsi tra i lavoratori. Migliaia di rivoluzionari avevano perso la vita nel 1905, o in seguito alla repressione, e altre migliaia erano stati reclutati e mandati al fronte nel tentativo di eliminare dal movimento operaio quegli agguerriti organizzatori. La polizia zarista, infatti, fu pericolosamente prossima a sradicare l’organizzata sinistra socialista in diversi momenti; tuttavia, i semi di più di una dozzina di anni di combattimenti, l’organizzazione di partiti clandestini e l’educazione socialista avevano messo radici.
Mentre in Germania e Francia i dirigenti delle più importanti organizzazioni socialiste avevano appoggiato le proprie classi dirigenti nella prima guerra mondiale, la maggior parte del movimento socialista russo adottò invece principi internazionalisti contrari alla guerra. Nel complesso, San Pietroburgo brulicava di socialisti rivoluzionari organizzati in gruppi di partito – tra bolscevichi, menscevichi, internazionalisti[1], socialisti rivoluzionari, e persino anarchici – che operavano in competizione e cooperazione tra loro.
Ovviamente, tra di loro c’erano anche alcuni famosi social‑patrioti, in particolare il capo dei menscevichi di destra, Georgi Plekhanov, il “padre della marxismo russo”, che sia Lenin che il menscevico internazionalista Julius Martov avevano un tempo considerato la loro guida politica.
In buona sostanza, le prime settimane del 1917 furono prossime a soddisfare quelle che Lenin considerava essere le premesse della “legge fondamentale della rivoluzione”, cioè:
«Solo quando gli “strati inferiori” non vogliono più e gli “strati superiori” non possono più vivere come in passato la rivoluzione può trionfare».
La classe operaia nell’impero russo non era la sola a resistere alle condizioni derivanti dalla guerra. Karl Liebknecth rompeva con la direzione filo‑bellica del partito socialdemocratico tedesco votando in parlamento contro i crediti di guerra; in carcere, Rosa Luxemburg scriveva il pamphlet pacifista Junius Brochure; soldati francesi e tedeschi dichiaravano una tregua unilaterale per Natale, e la sinistra del partito socialista americano insieme ai lavoratori del sindacato Industrial Workers of the World si opponevano con forza alla campagna bellica di Woodrow Wilson.
Ma la profondità della crisi sociale, economica e militare in Russia, sommata alla coscienza politica e all’organizzazione della classe operaia (in concomitanza con la crescente rivolta tra i soldati, contadini, studenti, e le nazionalità oppresse), correva molto più rapidamente che in qualsiasi altro posto del mondo nell’inverno del 1916–1917.
Soprattutto, una bella illusione (se non universalmente condivisa, almeno abbastanza comune) teneva insieme il vasto movimento anti-zarista. Cioè che, decapitata la monarchia, la pace, la democrazia e la prosperità sarebbero potute affermarsi in Russia.
Non ci volle molto perché il movimento rivoluzionario russo potesse mettere alla prova questa tesi. Febbraio fu solo l’inizio.
Note
[1] Gli Internazionalisti (Mežrajonstsy) erano un’organizzazione indipendente diretta da Trotsky, che nel mese di aprile 1917 confluì nei bolscevichi (Ndt).
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