Con legge n. 92 del 30 marzo 2004, venne istituita la “giornata del ricordo”, con cui da oltre un decennio si commemorano le “vittime delle foibe”.
In realtà, si tratta del compimento del grossolano disegno di manipolazione storica da decenni perseguito dalla destra fascista e post‑fascista, e che oggi beneficia del sigillo della celebrazione ufficiale dello Stato italiano posto sui mai sopiti sogni del revanscismo irredentista e nazionalista espresso dai settori reazionari più beceri presenti nella vita politica e nella società italiana.
E così, ogni anno, in occasione del 10 febbraio, tutto il più o meno malcelato fascistume riemerge dal sottosuolo con la scusa di commemorare le “vittime italiane della barbarie titina”.
Ma quella manipolazione è stata smascherata dal certosino lavoro di ricerca storica di alcuni studiosi indipendenti – tra cui Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi e Sandi Volk – che hanno dimostrato, con documenti inoppugnabili, che la “realtà” delle foibe è ben diversa da quanto la vulgata reazionaria racconta sulla base delle ricostruzioni di interessati “storiografi”.
Naturalmente, il risultato di queste approfondite indagini non beneficia – per poter giungere al grande pubblico – del veicolo dei mass media, tutti indistintamente proni dinanzi alla “verità ufficiale” (che, vedremo, tale non è), e tenta di farsi faticosamente strada attraverso canali alternativi.
È per questo che il nostro blog vuole rompere il muro di censura sull’argomento: un muro che è costruito sulla falsificazione persino della documentazione fotografica presente negli archivi, manipolata per capovolgere la verità dei fatti, come dimostra il documentatissimo articolo “Come si manipola la storia attraverso le immagini: il #GiornodelRicordo e i falsi fotografici sulle #foibe”. Ecco, quindi, il nostro piccolo contributo alla diffusione dei risultati di questa ricerca storica con la pubblicazione di una sintesi dei lavori e delle conclusioni di Alessandra Kersevan e Claudia Cernigoi.
Iniziamo con un’intervista alla professoressa Kersevan, ripresa dalla pagina web SenzaSoste.it, che introduce all’argomento in generale. Di seguito, invece, una sintesi del lavoro di Claudia Cernigoi, con particolare riguardo alla “foiba di Basovizza”, estratta dal terzo capitolo della sua opera Operazione foibe a Trieste, liberamente scaricabile qui.
Le foibe fra mito e realtà: intervista ad Alessandra Kersevan
Alessandra Kersevan, ex insegnante ed oggi paziente ricercatrice di storia e cultura della sua regione, il Friuli, da anni lavora al recupero della memoria storica in merito agli avvenimenti del confine orientale.
A Trieste la storia non comincia il 1° maggio 1945 …
Sì, Sembra un’osservazione banale, eppure di fronte a tante cose che sono state scritte in questi anni sulle vicende del confine orientale occorre chiarire e ricordare che il fascismo in questa regione è stato più violento che in qualsiasi altra parte d’Italia: sloveni e croati, oltre cinquecentomila persone che abitavano le terre annesse dallo stato italiano dopo la prima guerra mondiale furono oggetto di persecuzioni razziali e ogni tipo di angherie: divieto di usare la loro lingua, chiusura delle scuole, delle associazioni ed enti economici sloveni e croati, arresto degli oppositori, esecuzioni di condanne a morte decise dal Tribunale Speciale. Con l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia, nel 1941, la nostra regione divenne avamposto della guerra e le persecuzioni contro sloveni e croati, anche cittadini italiani, divennero ancora più gravi: interi paesi furono deportati nei campi di concentramento come Arbe/Rab, oggi in Croazia, ma allora annessa all’Italia dopo l’aggressione alla Jugoslavia, Gonars in provincia di Udine, Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo, Chiesanuova di Padova, Monigo di Treviso, Fraschette di Alatri in provincia di Frosinone, Colfiorito in Umbria, Cairo Montenotte in provincia di Savona e decine e decine di altri, praticamente in tutte le regioni d’Italia. Fra 7 e 11 mila persone, donne, uomini, bambini, intere famiglie, morirono in questi campi, di fame e malattie. A Trieste nel 1942 fu istituito per la repressione della resistenza partigiana l’Ispettorato Speciale di Polizia per la Venezia Giulia, che si macchiò di efferati delitti contro gli antifascisti in genere, ma soprattutto contro sloveni e croati.
Da chi è stato inaugurato l’uso delle foibe?
Ci sono testimonianze autorevoli (per esempio dell’ispettore di polizia De Giorgi, colui che nel dopoguerra fu incaricato dei recuperi dalle foibe) che furono proprio uomini dell’Ispettorato speciale, in particolare quelli della squadra politica, la cosiddetta banda Collotti, a gettare negli “anfratti del Carso” degli arrestati che morivano sotto tortura. Comunque andando anche più indietro nel tempo, già durante la prima guerra mondiale, che fu combattuta soprattutto in queste terre, le foibe venivano usate come luogo di sepoltura “veloce” dopo le sanguinose battaglie, e nell’immediato dopoguerra i fascisti pubblicavano testi di canzoncine in cui si minacciava di buttare nelle foibe chi si ostinava a non parlare “di Dante la favella”.
Che funzione aveva la Banda Collotti?
La banda Collotti era la squadra politica dell’Ispettorato speciale guidata appunto dal commissario Gaetano Collotti. Con la sua squadra batteva il Carso triestino per reprimere la resistenza che già nel ’42 era iniziata in queste zone. Si macchiarono di efferati delitti, torturando e uccidendo centinaia di persone. Come Resistenzastorica stiamo pubblicando con la casa editrice Kappa Vu la ricerca di Claudia Cernigoi sulla banda Collotti. Nel corso di alcuni anni di ricerche Cernigoi è riuscita a trovare una quantità consistente di documentazione. Eppure in questo dopoguerra nessuno, neppure gli istituti storici di Trieste e di Udine, avevano pubblicato nulla sull’argomento.
Definiamo le foibe. Chi ci è finito dentro? Donne? Bambini? Quanti in tutto? Perché c’è così grande attenzioni su queste esecuzioni, mentre in altre zone ce ne furono in numero assai maggiore?
Nelle foibe non sono finite donne e bambini, i profili di coloro che risultano infoibati sono quasi tutti di adulti compromessi con il fascismo, per quanto riguarda le foibe istriane del ‘43, e con l’occupatore tedesco per quanto riguarda il ’45. I casi di alcune donne infoibate sono legati a fatti particolari, vendette personali, che non possono essere attribuiti al movimento di liberazione. Questo diventa evidente quando si vanno ad analizzare i documenti, cosa che purtroppo la gran parte degli “storici” in questi anni non ha fatto, accontentandosi di riprendere i temi e le argomentazioni della propaganda neofascista. Va detto inoltre che i numeri non sono assolutamente quelli della propaganda di questi anni: è ormai assodato che in Istria nel ’43 le persone uccise nel corso della insurrezione successiva all’8 settembre sono fra le 250 e le 500, la gran parte uccise al momento della rioccupazione del territorio da parte dei nazifascisti; nel ’45 le persone scomparse, sono meno di cinquecento a Trieste e meno di mille a Gorizia, alcuni fucilati ma la gran parte morti di malattia in campo di concentramento in Jugoslavia. Uso il termine “scomparsi”, ma purtroppo è invalso l’uso di definire infoibati tutti i morti per mano partigiana. In realtà nel ’45 le persone “infoibate” furono alcune decine, e per queste morti ci furono nei mesi successivi dei processi e delle condanne, da cui risultava che si era trattato in genere di vendette personali nei confronti di spie o ritenute tali. C’è poi l’episodio della foiba Plutone, da cui furono estratti 18 corpi, in cui gli “infoibatori” erano appartenenti alla Decima Mas e criminali comuni infiltrati fra i partigiani, e furono arrestati e processati dagli stessi jugoslavi. Insomma se si va ad analizzare la documentazione esistente si vede che si tratta di una casistica varia che non può corrispondere ad un progetto di “pulizia etnica” da parte degli jugoslavi come si è detto molto spesso in questi anni.
La grande attenzione a questi fatti è funzionale alla criminalizzazione della resistenza jugoslava che fu la più grande resistenza europea. Di riflesso si criminalizza tutta la resistenza, e si è aperto il varco per criminalizzare anche quella italiana, come sta dimostrando ora Pansa con i suoi libri.
Gli studiosi delle foibe. Chi sono?
Sono di svariati generi. Quelli che noi chiamiamo un po’ ironicamente i “foibologi” sono tutti esponenti della destra più estrema, alcuni, come Luigi Papo hanno fatto addirittura parte della milizia fascista in Istria, di coloro cioè che collaborarono con i nazisti nella repressione della resistenza. Altri, più giovani, come Marco Pirina, sono stati esponenti di organizzazioni neofasciste negli anni della strategia della tensione (lui per esempio risulta coinvolto nel golpe Borghese). Poi c’è il filone degli storici che facevano riferimento al CLN triestino (organizzazione non collegata con il CLNAI) che fu il massimo organizzatore della “operazione foibe” a Trieste nel dopoguerra. Mentre può essere abbastanza facile capire le manipolazioni della “storiografia” fascista, è molto più difficile difendersi dalle manipolazioni della storiografia ciellenista, perché questi hanno un’aura di antifascismo che fa prendere per buone tutte le cose che scrivono. In realtà leggendo i loro libri ti accorgi che sono citazioni di citazioni da altri libri (spesso memorie di fascisti) non sottoposte a verifica. Il problema è che su tutta questa questione delle foibe ha pesato nel dopoguerra il clima della guerra fredda: voglio ricordare che un importantissimo documento di fonte alleata agli inizi del ‘46 diceva: sospendiamo, non avendo trovato nulla di interessante, le ricerche nel pozzo della miniera di Basovizza, ma perché gli Jugoslavi non possano dire che è stata tutta propaganda contro di loro, diremo che lo abbiamo fatto per mancanza di mezzi tecnici adeguati. Ha pesato e pesa inoltre molto la questione dei confini, e il sentimento delle “terre ingiustamente perdute”, che anche se con toni un po’ diversi, coinvolge anche gli storici che fanno riferimento politicamente al centro sinistra. Ci sono però anche tantissimi storici seri. Per “seri” intendo quelli che non si accontentano di quello che è già stato scritto, ma che cercano nuova documentazione, la analizzano, la confrontano con quanto è già stato pubblicato e inseriscono gli avvenimenti nel contesto in cui sono avvenuti. Questo è il metodo storiografico che tutti dovrebbero usare, ma, sembrerà incredibile, nella questione della foibe e dell’esodo anche storici accademici e “blasonati” si sono lasciati andare a metodi da propagandisti più che da storici, preferendo le citazioni di citazioni di citazioni, piuttosto che la fatica della ricerca.
La foiba di Basovizza. C’è una lapide che commemora le vittime, eppure la storia sembra molto diversa …
La documentazione esistente, una documentazione piuttosto corposa, dice che nella miniera di Basovizza non ci furono infoibamenti.
Già nell’estate del ’45, quindi pochissimo tempo dopo i pretesi infoibamenti, gli angloamericani procedettero per mesi a ricognizioni nel pozzo della miniera (infatti non si tratta di una foiba in senso geologico), in seguito alle denunce del CLN triestino che diceva che dovevano essere stati infoibati alcune centinaia di agenti della questura di Trieste. Poiché non fu trovato nulla di “interessante”, nei primi mesi del ’46 le ricerche furono sospese, come ho già spiegato prima. Tutto questo risulta da una gran quantità di documenti di fonte alleata, negli archivi di Washington e di Londra. Quindi nella “foiba” non ci sono i “500 metri cubi” di infoibati che sono scritti nella lapide, e neppure i duemila infoibati citati in libri. Dopo che Claudia Cernigoi ha riportato questi documenti nel suo libro “Operazione foibe a Trieste” la cosa dovrebbe essere evidente a tutti che si occupano dell’argomento. Ma si fa finta di niente. Il comune di Trieste adesso ha ristrutturato il monumento sulla foiba e presto verrà il presidente del Senato Marini a inaugurarlo. La menzogna vive ormai di vita propria, e non si riesce a fermarla.
Le leggende sulle foibe.
Ho già spiegato che le biografie della gran parte degli uccisi sono di persone coinvolte a vario titolo nel regime fascista prima e nell’occupazione nazista poi. Come ben mette in luce Claudia Cernigoi nel suo libro, in una città come Trieste il collaborazionismo interessò tantissime categorie di persone, e molti di quelli che vengono definiti “civili” erano in realtà e collaborazionisti, delatori di professione, spioni di quartiere che denunciavano gli ebrei. Per esempio ai rastrellamenti sul Carso con la banda Collotti partecipavano anche persone che non erano ufficialmente appartenenti alla questura. Come gruppo di Resistenzastorica abbiamo condotto una ricerca sulla vicenda di Graziano Udovisi, conosciuto come “l’unico ad essere uscito vivo dalla foiba” e presentato come una vittima “solo perché italiano”. Da questa ricerca è emerso, oltre alla assoluta falsità del suo racconto, che egli dal ’43 al ’45 era stato tenente della Milizia Difesa Territoriale, in un gruppo dal nome significativo di “Mazza di Ferro”, specificamente preposto alla repressione della guerriglia, e che nel ’46 fu condannato per crimini di guerra a 2 anni e 11 mesi di reclusione. Eppure nel 2005 Graziano Udovisi è diventato “uomo dell’anno”, premiato con l’Oscar della Rai per una sua intervista a Minoli, che lo ha presentato come uno che è stato “infoibato” solo perché italiano. Come ho già detto: storici, giornalisti e tutti coloro che scrivono di queste cose in questi anni di Giornate del Ricordo, dovrebbero sapere che intorno a queste vicende c’è tanta propaganda, e che quindi bisogna informarsi bene prima di scrivere.
L’atteggiamento della destra e della sinistra.
Non si vede una grande differenza. La destra fascista ha trovato in questo argomento la possibilità di ribaltare il discorso delle responsabilità nella seconda guerra mondiale, passando da carnefici a vittime, con la possibile riabilitazione dei repubblichini di Salò ecc. La sinistra ha trovato l’occasione per prendere le distanze dal proprio passato partigiano, con tutta una serie di distinguo e di “ammissioni” in cui le foibe erano funzionali in quanto venivano attribuite a partigiani, sì, ma “slavi” (e si sa che il razzismo antislavo è molto diffuso) e quindi la resistenza italiana poteva restarne fuori. La miopia di una simile posizione la si vede oggi, con un’operazione come quella di Giampaolo Pansa, che attacca direttamente la resistenza italiana.
C’è da dire, inoltre, che la “operazione foibe” è funzionale alla politica estera italiana, tradizionalmente “espansionistica” verso la penisola balcanica. Anche in questo senso, centrodestra e centrosinistra non si distinguono. Noi di Resistenzastorica abbiamo una raccolta impressionante di dichiarazioni di esponenti del centro sinistra in senso neoirredentista, cioè tese alla rivendicazione delle “terre perdute”, tema che oltre ad essere stato sempre tipico della destra, sembrerebbe oggi anche antistorico, nel momento dell’allargamento dell’UE. Eppure le dichiarazioni ci sono, anche di personaggi come Fassino.
Che cosa significa oggi commemorare i morti delle foibe?
Come ho spiegato, commemorare i morti nelle foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo. Per gli altri morti, quelli vittime di rese dei conti o vendette personali, c’è il 2 di novembre.
Che cosa andrebbe fatto per restituire dignità alla memoria storica del paese?
Per quanto riguarda la dignità del paese, credo che l’unica cosa da fare sia smettere quella convinzione nazionale che gli italiani siano sempre stati “brava gente”, che dovunque sono andati hanno portato la civiltà, anche quando bruciavano i villaggi della Croazia, o impiccavano i ribelli libici. Gli italiani debbono rendersi conto che la repubblica italiana non ha mai fatto veramente i conti con le responsabilità del fascismo. Dietro al discorso delle foibe c’è proprio l’interesse di continuare a nascondere queste responsabilità. Infatti la proposta italiana di incontro trilaterale fra i presidenti di Italia, Slovenia, Croazia, sui luoghi della memoria, inserendo la Risiera di San Sabba, il campo di concentramento di Gonars (o quello di Arbe) e la foiba di Basovizza, non è altro che un tentativo di gettare fumo negli occhi, di far dimenticare i crimini di guerra italiani in quei territori equiparando la foiba di Basovizza alla Risiera, unico campo di concentramento nazista con forno crematorio, in cui morirono oltre 3000 persone, soprattutto partigiani italiani, sloveni e croati, o ai campi di concentramento in cui morirono almeno settemila sloveni, croati, serbi, montenegrini. Il presidente della Repubblica dovrebbe andare di propria iniziativa ad Arbe in Croazia, o a Gonars a rendere omaggio alle vittime del fascismo, e a chiedere scusa agli ex jugoslavi. Questo dovrebbe essere la prima cosa da fare. Poi dovrebbe far pubblicare i risultati della commissione storica italo-slovena, che il governo italiano si era impegnato a pubblicare ma non ha mai fatto. Poi il governo di centro sinistra potrebbe obbligare la RAi a trasmettere in prima serata il documentario “Fascist legacy / L’eredità fascista”, sui crimini di guerra italiani in Etiopia, Libia e Jugoslavia. Questo documentario della BBC fu acquistato nell’89 dalla RAI, ma mai trasmesso.
La “foiba” di Basovizza
Ovvero: come si costruisce un falso storico
Claudia Cernigoi
La voragine nota come “foiba” di Basovizza[1] è in realtà il pozzo di una vecchia miniera abbandonata. Il suo nome tradizionale è “Šoht”, è profonda 254 metri e la sua imboccatura è più o meno un rettangolo di tre metri per quattro. Già dopo la prima guerra mondiale fu usata come discarica, anche di materiale bellico: fu anche tristemente nota come meta di suicidi.
Dichiarata monumento nazionale dal presidente della Repubblica Italiana Scalfaro nel 1992, è sempre stata usata dalla propaganda reazionaria come “esempio” della “barbarie slavocomunista”. Il numero dei corpi di infoibati che conterrebbe, sempre secondo gli “storici” delle organizzazioni di destra, varia dai 2.500 di un articolo apparso nel febbraio 1996 su “La Repubblica”, ai “cento metri cubi di carne ed ossa” (sic!) dichiarati dall’ex-deputata di Forza Italia Marucci Vascon in una lettera dell’agosto 1996 pubblicata sul “Piccolo”.
Ma anche storici più seri hanno accreditato la presenza nello Šoht di 300–400 corpi, Come mai? Andiamo con ordine.
Dopo la battaglia di Basovizza (30.4.45) la gente del posto vi gettò dentro corpi di militari, soprattutto tedeschi, carcasse di cavalli (morti durante i raid effettuati dagli aerei britannici nel corso della battaglia) ed anche materiale militare. Tra il settembre e l’ottobre del 1945 gli angloamericani recuperarono quanto poterono dal pozzo. Ma sentiamo cosa dice l’articolo apparso sul “Piccolo” di Trieste il 10.1.95, a firma Pietro Spirito e Roberto Spazzali:
«È del 13 ottobre 1945 il rapporto che elenca sommariamente i risultati delle esumazioni, effettuate utilizzando la benna … questo documento (…) permette di avere la conferma che almeno una decina di corpi umani furono recuperati dagli anglo-americani. “Le scoperte effettuate – si legge nel rapporto – si riferiscono a parti di cavallo e cadaveri di tedeschi, e si può dedurre che ulteriori sopralluoghi potrebbero eventualmente rivelare cadaveri di italiani”».
Sempre nella stesse pagine del “Piccolo” vengono riportati dei brani tratti dal “rapporto segreto” sopra citato, nel quale risulta la reale entità dei recuperi effettuati: otto corpi umani interi (di questi due presumibilmente tedeschi ed uno di sesso femminile), alcuni resti umani (per lo più arti) ed alcune carcasse di cavallo. Continua l’articolo: «Ma una decina di corpi smembrati e irriconoscibili non dovevano sembrare un risultato soddisfacente e alla fine si preferì sospendere i lavori».
Ma come mai gli angloamericani decisero di recuperare quanto “infoibato” nel pozzo della miniera? Già il 29 luglio 1945 apparve questa notizia (noi la citiamo da “Risorgimento Liberale”, organo del Partito Liberale):
«Grande e penosa impressione ha destato in tutta l’America la notizia, proveniente da Basovizza presso Trieste, circa il massacro di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito, le cui salme sono state scoperte dalle autorità alleate nelle cave di quella zona. Particolare rilievo viene dato al fatto che ivi compresi si trovano otto cadaveri di soldati neozelandesi e si temono di conseguenza complicazioni internazionali».
Ma già due giorni dopo appare, sullo stesso quotidiano, questo titolo: “Smentita alleata sul pozzo di cadaveri a Trieste”. Ed ecco l’articolo:
«Il Comando generale dell’Ottava Armata britannica ha ufficialmente smentito oggi le notizie pubblicate dalla stampa italiana secondo cui 400 o 600 cadaveri sarebbero stati rinvenuti in una profonda miniera della zona di Trieste. Alcuni ufficiali dell’Ottava Armata hanno precisato inoltre che non si hanno indicazioni circa i cadaveri degli italiani ma per quanto riguarda l’asserita presenza di cadaveri di soldati neozelandesi essa viene senz’altro negata».
Si può notare in queste poche righe come iniziò a lavorare la provocazione reazionaria per creare, come si direbbe oggidì, “l’immaginario” della foiba: intanto si tirò fuori la notizia di una cifra enorme di “infoibati”, per creare impressione ed orrore e la si presentò come se negli Stati Uniti non si parlasse d’altro, cosa non vera; e poi il tocco finale degli otto soldati neozelandesi uccisi dai partigiani di Tito, tanto per creare ulteriore tensione tra il governo jugoslavo e quello britannico (si noti il finalino del primo articolo: «si temono complicazioni internazionali»). È poi degno di nota anche il passaggio dai «400» cadaveri del primo articolo ai «400–600» del secondo.
Così gli angloamericani decisero di scavare nel pozzo di Basovizza per chiarire la faccenda anche perché nel frattempo in città continuavano le voci che parlavano di “centinaia di infoibati dai titini”. E quello che trovarono risulta dal rapporto sopra pubblicato.
Diciamo anche, a questo punto, che non sembra probabile che corpi di italiani uccisi verso il 5 o 6 maggio possano trovarsi sotto i corpi dei tedeschi morti una settimana prima, per cui, una volta trovati i tedeschi, gli angloamericani decisero probabilmente che nello Šoht non potevano esserci né italiani né neozelandesi. Esiste comunque un’altra smentita, da parte del Ministero della difesa neozelandese, in merito alla supposta presenza di soldati neozelandesi nel pozzo di Basovizza; risale al 12.2.1996 ed è stata pubblicata dal periodico “Novi Matajur” il 25.4.1996. Il Ministro Crawford risponde ad una lettera inviata dal signor Valentin Brecelj, membro del circolo di Melbourne dell’associazione degli emigranti sloveni, il quale, avendo letto sul settimanale “Epoca” dell’aprile ’95 che «nel pozzo della miniera abbandonata di Basovizza, tra centinaia e centinaia di morti, sono stati ritrovati anche i cadaveri di 27 neozelandesi…», scrisse, nel febbraio del ’96, proprio al Ministero della Difesa neozelandese per avere chiarimenti. La risposta, arrivata dopo soli dieci giorni, è breve e lapidaria: «In passato noi abbiamo indagato su simili rapporti ed abbiamo verificato che non sono basati su fatti».
Ma torniamo ai “rapporti segreti” che il “Piccolo” pubblicò in più puntate nel gennaio ’95.
Titolo apparso all’interno di un paginone dedicato all’argomento “foibe” in data 30 gennaio 1995: “COSI’ DUE PRETI TESTIMONIARONO GLI INFOIBAMENTI”. In questo articolo viene pubblicato un brano contenuto in un documento stilato dagli Alleati nell’ottobre 1945 (una copia di questo, in lingua inglese, è conservata anche presso l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste) che comprende le deposizioni di due preti che, stando all’articolo, sarebbero servite agli “storici” per accreditare le «esecuzioni di Basovizza».
I cosiddetti “testimoni oculari” degli infoibamenti, secondo questo documento siglato da un certo “Source” (nome in codice; però source in inglese significa semplicemente “sorgente” o “fonte”), sono don Malalan, prete di S. Antonio in Bosco-Boršt, (paesino a pochi chilometri da Basovizza) e don Virgil Šček, parroco di Corgnale (altro paese vicino a Basovizza, che però si trova oggi in Slovenia), intellettuale e già deputato del Regno d’Italia prima dell’avvento del fascismo.
Innanzitutto leggiamo che don Malalan non riferisce di aver assistito personalmente ai processi ed alle esecuzioni, dando però queste, a domanda di Source, per avvenute, e dichiarando che i prigionieri, quasi tutti agenti di polizia, si erano ben meritati la fine che avevano fatto. Ciò che riferisce don Malalan è il suo colloquio con don Šček, che aveva “ammesso di essere stato presente al momento in cui le vittime venivano gettate nelle foibe”. Lasciamo da parte quindi la testimonianza di don Malalan che parla per sentito dire, come si direbbe in un’aula di tribunale e vediamo invece cosa riferisce Source del racconto di don Šček:
«Il 2 maggio egli (don Šček, n.d.a.) andò a Basovizza … mentre era lì aveva visto in un campo nelle vicinanze circa 150 civili “che erano riconoscibili dalle loro facce quali membri della Questura”. La gente del luogo voleva fare giustizia in modo sommario ma gli ufficiali della IV Armata erano contrari[2]. Queste persone furono interrogate e processate alla presenza di tutta la popolazione che le accusò. (…) Quasi tutti furono condannati a morte (…) Tutti i 150 civili furono fucilati in massa da un gruppo di partigiani. I partigiani erano armati con fucili mitragliatori, e poi, poiché non c’erano bare, i corpi furono gettati nella foiba di Basovizza».
Però: «Quando Source chiese a don Šček se era stato presente all’esecuzione o aveva sentito gli spari questi rispose CHE NON ERA STATO PRESENTE NÉ AVEVA SENTITO GLI SPARI» (il maiuscolo è nostro, n.d.a.). Quindi don Šček fu testimone oculare sì, ma dei processi e non degli infoibamenti.
Il documento prosegue ancora: «Il 3 maggio don Šček andò di nuovo a Basovizza e vide nello stesso posto circa 250–300 persone (…) queste persone furono anche uccise dopo un processo sommario. Erano per lo più civili arrestati a Trieste dopo i primi giorni dell’occupazione. Don Šček dichiara che erano quasi tutti membri della Questura».
Ma neanche qui don Šček li vide materialmente uccidere. Cosa poteva essere successo dunque?
Come dovrebbe essere noto, i partigiani arrestarono, nei primi giorni di maggio, molte persone, non a casaccio ma a ragion veduta, perché avevano con sé degli elenchi in cui erano segnalati i nomi dei criminali di guerra e dei collaborazionisti. Arrestarono per lo più agenti di P.S., militari e collaboratori dei nazifascisti. Che fossero in abiti civili non esclude che potesse trattarsi di poliziotti o militari in borghese: nessuna persona intelligente si sarebbe tenuta addosso le divise dopo l’arrivo dei partigiani, se solo avesse avuto la possibilità di cambiarsi (e chi abitava a Trieste questa possibilità ce l’aveva).
I prigionieri venivano portati a Basovizza dove aveva sede il Tribunale del Popolo. Detta così può parere melodrammatica, però va riferito che i processi si svolgevano effettivamente di fronte alla popolazione, che aveva diritto di intervenire e testimoniare, pro o contro gli accusati. Vi furono diversi casi in cui, non esistendo testimonianze dirette a carico degli arrestati, questi vennero lasciati liberi; il che causò non pochi errori giudiziari a vantaggio degli accusati, come nel caso di Remigio Rebez, l’efferato “boia della caserma di Palmanova”, che nella caserma Piave di Palmanova, appunto, aveva operato feroci torture e massacri. Ma a Trieste non c’era chi potesse testimoniare contro di lui, ed i “feroci titini” lo lasciarono libero. Per la cronaca, fu processato a Udine nel 1946, riconosciuto criminale di guerra e condannato a morte, poi amnistiato ed è ancora vivo[3] (nonostante Pirina lo metta tra gli “scomparsi”).
Una volta processati, gli arrestati, se riconosciuti colpevoli, venivano inviati verso Lubiana per venire processati regolarmente. Sembra probabile che la IV Armata jugoslava, che, come riferisce il rapporto di “Source”, era contraria alle esecuzioni sommarie, avesse deciso di condannare a morte i prigionieri tanto per calmare gli animi della popolazione inferocita e poi li abbia condotti verso l’interno della Slovenia, a Lubiana o nei campi di lavoro.
Il governo militare alleato usò poi lo Šoht come discarica di materiale militare, ma decise, prima di lasciare Trieste nel 1954, di affidare ad una ditta di Banne lo svuotamento del pozzo, probabilmente per verificare di non aver lasciato dietro di se materiale d’archivio o altre cose compromettenti.
Il comune di Dolina‑S. Dorligo della Valle autorizzò, con delibera giuntale n. 854/54 dd. 23.2.54 (la delibera è pubblicata qui in appendice), lo svuotamento del pozzo e gli operai addetti arrivarono fino alla profondità di 225 metri, sui 254 totali. Furono estratti residui di armi, materiale bellico e rifiuti vari: ma non v’era traccia di resti umani.
Vorremmo ora citare una curiosa coincidenza in merito allo svuotamento del pozzo in quest’occasione: tra le persone che osservavano i lavori – militari angloamericani, giornalisti (anche tedeschi) e semplici osservatori curiosi –, c’era anche un dirigente del Comune di Trieste, capo del settore Nettezza Urbana. Questi era lo stesso Griselli che si era trovato ad essere processato, proprio a Basovizza, sotto la tettoia dell’attuale farmacia, nei primi giorni di maggio ’45. È questo uno dei casi di assoluzione per mancanza di testimonianze a carico: Griselli giustificò la sua appartenenza al partito fascista perché, lavorando al Comune di Trieste, temeva di perdere il posto se si fosse rifiutato di iscriversi e fu creduto, dato che non c’era nessuno a testimoniare contro di lui. In realtà, come risultò da ricerche condotte da Samo Pahor, Griselli non solo era stato squadrista della prima ora, ma si era anche trovato a ricoprire la carica di commissario civile a Novo Mesto, nella “provincia di Lubiana” occupata militarmente dagli italiani. Nel corso del suo mandato aveva rimandato nella Stiria, che comprendeva anche la parte della Slovenia occupata dai tedeschi, diversi ragazzi delle scuole superiori che erano profughi a Novo Mesto, scappati dalle loro terre occupate, perché erano “colpevoli” di avere organizzato, in occasione della festa nazionale jugoslava (che cadeva il 1° dicembre), una protesta pacifica nelle classi, protesta che consisteva nel rimanere alzati in piedi per alcune ore in silenzio. Si può ben immaginare la sorte toccata a questi ragazzi una volta rientrati in Stiria nelle mani dei nazisti.
Ma torniamo al nostro Šoht. Dopo lo svuotamento del ’54, tornata l’Italia, il sindaco Bartoli (sì, proprio Gianni Lagrima) autorizzò l’uso del pozzo come discarica di rifiuti e tale fu l’uso che se ne fece fino alla fine degli anni Cinquanta. Come Gianni Bartoli, che aveva costruito la propria immagine pubblica sulla base della nostalgia per le terre perdute dell’Istria e del ricordo dei martiri delle foibe (comprese le “centinaia di infoibati di Basovizza”!), potesse autorizzare a scaricare immondizia sopra dei resti di corpi umani ci è difficile da credere: potrebbe sorgerci il sospetto che lui, che oltretutto aveva avuto il capo Griselli a sovrintendere all’operazione di svuotamento, sapesse benissimo che lì dentro non c’erano i corpi di quelli che lui, nei suoi libri, lasciava credere che ci fossero.
Date queste basi, riteniamo che l’unica cosa logica, oggi come oggi, per fare chiarezza una volta per tutte, sia che il pozzo venga aperto e svuotato. Con le moderne tecniche non dovrebbe essere difficile: e una volta aperto e verificato cosa c’è dentro, sapremo se in tutti questi anni si sono portati dei fiori su un mucchio di immondizia.
Note
[1] Per chi volesse approfondire l’argomento sulla foiba di Basovizza, esiste una specifica monografia sul tema della stessa Autrice, consultabile qui (n.d.r.).
[2] Questa affermazione di Source va a conferma di quanto dichiarato da Mario Pacor sul comportamento delle autorità jugoslave (v. cap. III, par. 1).
[3] Cfr. cap. I, La X MAS.