La “Dottrina Soares”
Raquel Varela[1]
In occasione della morte di Mario Soares, dirigente del Partito socialista portoghese e uno dei protagonisti della rivoluzione del 25 aprile 1974, Raquel Varela, storica e ricercatrice all’Università di Lisbona, e autrice di rilevanti studi sulla Rivoluzione dei garofani (su cui ci ripromettiamo di tornare in una prossima occasione, attesa l’importanza dell’ultimo processo rivoluzionario sviluppatosi nel cuore dell’Europa nel XX secolo, in cui è stata messa in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione e, più in generale, l’assetto dell’ordine capitalistico), ha scritto questo breve ma intenso testo su Soares, evidenziandone il ruolo di primo piano nella “gestione” di quel processo rivoluzionario per depotenziarlo fino a ricondurlo nei limiti dell’ordinamento borghese in una dinamica che è corretto definire di “reazione democratica”.
L’articolo, che presentiamo qui tradotto in italiano, è stato pubblicato sulla pagina web Esquerda online e sul Blog di Raquel Varela.
Mario Soares è morto con gli onori, meritati, dei funerali di Stato. Era il suo Stato, il suo regime democratico‑rappresentativo. Del quale egli fu non il padre – sarebbe stata un’oligarchia – ma uno dei dirigenti principali. La sua importanza come dirigente politico è stata segnata non da ciò che fece come resistente antifascista, incarcerato per dodici volte, e neppure dalla liberalizzazione delle leggi a tutela dei lavoratori degli anni 80 o dalla resistenza alla Troika neoliberale dopo il 2008. Segnalo che nessuno di questi avvenimenti richiedeva uomini eccezionali.
Ciò in cui invece fu straordinario, ciò che lo ha collocato sul podio della storia mondiale, fu nel 1974‑75. Non a caso, nel giorno della sua scomparsa – dopo una vita lunga 92 anni – le due grandi polemiche che hanno coinvolto la sua figura dominando i social network sono state “Soares, colpevole della controrivoluzione” e “Soares, colpevole della decolonizzazione”. Penso che rispetto a queste due affermazioni vi sia molto di memoria e poco di storia.
Nel 1974 accadde in Portogallo qualcosa di raro. Di molto raro. Un colpo di stato aprì la strada a una rivoluzione sociale. E che cos’è una rivoluzione? È quel momento della storia in cui il potere dello Stato è messo in discussione dalle masse – all’inizio sono solo questo, masse. Dopodiché, poco a poco, si organizzano coscientemente in commissioni di lavoratori, di abitanti, commissioni di gestione democratica e sono disputate dai partiti politici.
Il Partito socialista (PS) non esisteva e si trasformò da un piccolo gruppo marginale con poche decine di militanti in un partito di massa con 80.000 attivisti nell’estate del 1975; il Partito comunista portoghese (PCP), che nell’aprile del 1974 era un partito d’avanguardia di 2.000 o 3.000 militanti divenne un partito di 100.000 un anno dopo. Comprendete la forza sociale? La storia cambia in un sol giorno ciò che non è riuscita a cambiare in decenni. Questo accade perché milioni di persone, quelle che stanno “in basso”, prendono la parola sulle loro vite. La politica cessa di essere un’attività di specialisti e professionisti. È lo spettro dell’autodeterminazione.
Quella rivoluzione non attese neppure le elezioni per la Costituente nell’aprile del 1975: in pochi giorni o settimane dopo il 25 aprile 1974, fu quasi del tutto smantellato il regime politico della dittatura, sostituito da un regime democratico. La democrazia nacque allora. Quando Soares e Cunhal tornarono in Portogallo dall’esilio, questo era già un Paese democratico, in cui si poteva organizzare, parlare, pubblicare. Votare – e molto – nei luoghi di lavoro.
È stata l’ultima rivoluzione europea a mettere in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione. Ciò risulta dal trasferimento, secondo i dati ufficiali, del 18% del reddito dal capitale al lavoro, ciò che ha permesso il diritto al lavoro, salari al di sopra del livello di riproduzione biologica (cioè, al di sopra del “lavorare per sopravvivere”), accesso egualitario e universale all’istruzione, alla sanità e alla sicurezza sciale. Cioè, lo stato sociale.
Dare una direzione a questo fiume travolgente è compito di uomini e donne che svolgono un ruolo individuale insostituibile nella storia. La lotta tra le classi e frazioni di classi seleziona i più capaci – pazienti, emotivamente stabili, audaci, determinati. Credono in un programma politico superiore, al di là di loro stessi, non sono uomini dalla carriera individuale, ma di direzione collettiva. Sono rari. Sono i dirigenti.
Nel 1976 Kissinger ringraziò personalmente Olof Palme per l’appoggio dato a Soares contro la Rivoluzione dei Garofani. Soares era molto più vicino ideologicamente ad Allende, morto a seguito di un colpo di stato co‑diretto da Kissinger, che allo stesso segretario di Stato nordamericano. In quell’occasione, l’SPD tedesca aveva trasferito verso il Portogallo – per costruire il PS, reclutare quadri, aprire sedi, dirigere sindacati, assemblee municipali e istituzioni – la maggior somma di denaro mai esportata da un partito al di fuori della Germania. La stessa cosa accadde per il PCP con l’appoggio dell’Urss, per lo più attraverso la Germania dell’Est. PS e PCP disputavano l’organizzazione di quel mare di gente.
Soares convinse i suoi referenti nazionali e internazionali della bontà di una strategia assolutamente nuova nel quadro delle rivoluzioni post 1945. La sconfitta della rivoluzione non sarebbe stata ottenuta ricorrendo a un golpe militare sanguinoso e a una repressione generalizzata, come si usava all’epoca, ma con un misto di golpe militare controllato (25 novembre) e l’instaurazione di un regime civile di democrazia rappresentativa. Cioè, il contrario di quanto accaduto in Cile. Una dinamica che cominciò così: con l’imposizione, a partire dal novembre del 1975, della “disciplina”, cioè della gerarchia, nelle caserme; e che si consolidò attraverso un processo di “controrivoluzione democratica”.
Il Portogallo è il primo esempio di successo di una rivoluzione sconfitta con l’instaurazione di un regime di democrazia rappresentativa. Un modello che sarà usato nella Spagna franchista e anche nel Cile, nel Brasile e nell’Argentina degli anni 80, la “dottrina” Carter. Poteva e si sarebbe dovuta chiamare “dottrina Soares”.
Ma affinché questa controrivoluzione – o normalizzazione democratica come oggi la definiscono i media (è curioso che persino gli storici più conservatori negli anni 80 non rifuggivano dal termine “controrivoluzione”) – potesse imporsi, dové porre fine alla democrazia di base, soprattutto nelle caserme, nelle fabbriche, nelle imprese, nelle scuole e nei quartieri. E questo era il lato più impopolare di Soares. Ed è qui che nasce il mito fondatore del regime, quello per cui la fine della democrazia di base, che Soares diceva di appoggiare, era il male minore rispetto alla minaccia di una dittatura sovietica. Tanto che Soares disse che il 25 novembre era contro «la socialdemocrazia capitalista e il socialismo dittatoriale sovietico».
Il PCP non ha mai voluto fare una rivoluzione socialista in Portogallo. E aveva paura delle fabbriche controllate dai lavoratori tanto quanto il PS. Ciò non significa che il Partito comunista non abbia voluto occupare posti nell’apparato dello Stato. Lo ha voluto, e molto. Così come il Partito socialista. Fino al settembre del 1975 occupò molti di quei posti, ed è a partire da quel momento che vi fu un voltafaccia e fu il PS ad occupare quei posti; tanto che Cunhal scrisse un testo in cui sosteneva che «il nostro appoggio al VI governo diminuisce a seconda dei posti che ci danno nel governo e a seconda di quanto aprano o chiudano per noi il rubinetto dello Stato».
La posizione del PCP prevedeva una difesa formale della rivoluzione socialista, ma contemporaneamente la diffusione dinanzi ai cancelli delle fabbriche di volantini che invitavano i lavoratori a far cessare gli scioperi, perché gli scioperi erano contro i governi provvisori in cui il PCP … era in alleanza con il PS e il PPD (Partito popolare democratico). Carlos Carvalhas, al governo nel 1975, approvò due documenti contro il controllo operaio che esisteva di fatto nelle fabbriche, affermando che il controllo operaio non poteva mettere in discussione l’economia nazionale, e l’economia nazionale aveva il 92% della manodopera che era occupata nell’economia privata, la cui proprietà non veniva messa in dubbio dal PCP. Fu quella posizione di difesa formale della rivoluzione socialista a porre fine al V governo, perché si sosteneva che quest’ultimo non poteva durare senza un’alleanza con il PS, con il settore del Gruppo dei Nove, senza una ricostituzione del MFA.
L’importante non era ciò che il PCP proclamava, ma ciò che faceva. Fu il PCP a porre fine al V governo, a impedire all’Intersindacale di scendere in piazza e ai fucilieri di intervenire il 25 novembre. La storia politica del PCP non si può scrivere senza fonti. La strategia del PCP non aveva come obiettivo la rivoluzione socialista, ma che il Portogallo fosse una democrazia nel quadro della divisione del mondo negoziata a Yalta e a Potsdam alla fine della seconda guerra mondiale. Il Portogallo sarebbe dovuto restare nella sfera dell’Alleanza atlantica. Perciò nel 1975 il PCP non propugnava né appoggiava l’uscita del Portogallo dalla Nato.
Il PCP era parte della costruzione della democrazia e non una minaccia per la democrazia. Era parte del regime, e all’interno del regime disputava i lavoratori organizzati e migliori condizioni per gli stessi; e lo fece nel 1974 e 1975 non mettendo in discussione il regime, né il sistema politico. Chi non comprende questo non può percepire cosa sono stati il Portogallo, i sindacati e il patto sociale nato nel 1976.
I tentativi di controllo dell’apparato dello Stato da parte del PCP (IV governo) e da parte del PS (VI governo), che sono effettivamente esistiti, non avevano nessun legame con la democrazia che vigeva nelle imprese e nelle fabbriche e che andò via via crescendo durante il 1975, mettendo successivamente in discussione i provvedimenti di governi che non erano mai stati eletti. Stato e rivoluzione non camminavano mano nella mano. Il PS e il PCP stavano nello Stato, la rivoluzione fuori.
Soares non fu il colpevole della decolonizzazione. Non c’era né c’è mai stata decolonizzazione buona. Fu la stessa colonizzazione ad essere colpevole della sua tragica fine. Perché era un modello di economia basata sul lavoro forzato, sulla dislocazione di popolazioni e sulla polizia politica – la PIDE nelle colonie era una piccola Gestapo che di fatto agiva in rapporto diretto con l’esercito coloniale, ricorrendo, ad esempio, all’assassinio mirato di elementi “sovversivi”.
Negli anni 50 del XX secolo fu concesso ai portoghesi poveri di scegliere se andarsene in Francia a lavorare come robot nelle fabbriche della Renault o diventare padroncini, piccoli commercianti o funzionari nelle colonie. Alcuni scelsero questa seconda strada e persero tutto nel 1975. Non perché Soares glielo abbia strappato, ma perché avevano costruito le loro case sulle macerie delle case altrui.
Nelle colonie la PIDE[2] non nascondeva i suoi informatori perché quando i “pides”[3] entravano in un locale pubblico i coloni si alzavano e si inchinavano. La vita è fatta di scelte e tutte hanno le loro conseguenze. Il 60% del salario dei minatori del Mozambico costretti dall’esercito portoghese ai lavori forzati nelle miniere del Sudafrica era fornito in oro allo Stato portoghese, che poi pagava loro una parte in moneta locale svalutata. La restante parte restava nei forzieri di Lisbona e veniva trasferita ai cinque gruppi economici che dominavano il Paese e che prima di ciò non erano gruppi economici, bensì mercenari. A Soares e a decine di altri politici restò la responsabilità di chiudere la porta di una diga che era stata irreversibilmente aperta dopo che nel gennaio del 1961 i lavoratori forzati della Cotonang avevano proclamato uno sciopero a tempo indeterminato ed erano stati innaffiati di napalm dall’esercito portoghese. Con l’alta inflazione nel Paese, disoccupazione galoppante e migliaia di persone in quartieri dalle case di cartone, nel 1975 chi ritornò venne alloggiato in alberghi sulla costa dell’Estoril – anche da Soares. Tornarono in cattive condizioni, avevano perso tutto; molti erano scioccati dal Paese che trovavano, con le donne col fazzoletto nero in testa. Per loro, l’Africa era una terra di libertà. Ma era anche il Paese che li aveva accolti, a centinaia di migliaia, dalla notte al giorno, tentando di sistemarli nel modo migliore.
Scoprirono, nel 1975, che nessuno è libero nella prigione degli altri.
Mai tanta gente aveva deciso così tanto nella storia del Portogallo come nel 1974 e nel 1975. Oggi questo passato rivoluzionario – quando i più poveri, i più fragili, spesso analfabeti, osarono prendere la vita nelle proprie mani – è una specie di incubo storico delle attuali classi dirigenti portoghesi.
Il Portogallo è stato, insieme al Vietnam, il Paese più seguito dalla stampa internazionale dell’epoca, perché le immagini delle persone dei quartieri fatti di baracche che sorridevano a braccia aperte al fianco di giovani militari barbuti e allegri riempì di speranza i popoli di Spagna, Grecia, Brasile … E di giubilo la maggioranza di chi viveva qui.
Oggi la tendenza in Portogallo e in Europa è di alta concentrazione della ricchezza. Nel 1945, la differenza tra un ricco e un povero, o un lavoratore manuale qualificato in Europa, era di 1 a 12. Nel 1980 è diventata di 1 a 82. E oggi è di 1 a 530. L’Unione europea è una corporazione di accumulazione di capitali. E l’accumulazione è incompatibile col mantenimento di servizi pubblici di qualità a causa della caduta tendenziale del saggio di profitto. La conseguenza è la distruzione del welfare state, un Paese arretrato, dai bassi salari, la qualità del lavoro in declino, l’emigrazione.
Ciò che in particolare vediamo in Portogallo e in altri Paesi è in realtà l’aumento dell’assistenza sociale ai più poveri, con l’istruzione e la sanità pubbliche ristrette ai disoccupati e non rivolte a tutta la società. Il modello su cui si basa la socialdemocrazia si è volatilizzato. E Soares ha assistito, ancora in vita, alla fine del suo progetto politico.
Note
[1] Raquel Varela è una storica. Ricercatrice di Storia contemporanea all’Universidade Nova di Lisbona, dove coordina il gruppo di Storia globale del Lavoro e dei Conflitti sociali, ha pubblicato diversi libri sulla “Rivoluzione dei garofani” del 25 aprile 1974 in Portogallo, tra cui Storia del popolo nella rivoluzione portoghese, 1974‑1975 e La storia del PCP nella Rivoluzione dei garofani.
[2] Polizia Internazionale e di Difesa dello Stato (ndr).
[3] Membri della PIDE (ndr).