La sera della vigilia di capodanno, a Campinas, una città dello Stato di San Paolo del Brasile, un uomo di 46 anni, che era stato denunciato dalla sua compagna per abusi sessuali sul loro figlio di 8 anni e che per questo era stato allontanato dalla casa familiare per ordine del tribunale, ha fatto irruzione nell’abitazione dove la donna, insieme ai suoi familiari e al bambino, stavano festeggiando l’arrivo del nuovo anno. Ha quindi ucciso lei e altre dieci persone. Poi ha freddato il piccolo con alcuni colpi di pistola alla testa prima di togliersi la vita.
La ferocia del gesto parla da sé sola. Ma è aggravata dal fatto che, prima di compierlo, l’uomo ha scritto una lettera e inciso alcuni audio in cui, mostrando di avere premeditato nei minimi dettagli il massacro che si accingeva a compiere, dà la sua “giustificazione” del barbaro atto: il fatto cioè che la sua ex compagna avesse deciso, facendo ricorso a una legge approvata in Brasile nel 2006, che accorda tutela alle donne dalle violenze dei propri partner (legge Maria da Penha, dal nome della donna che con la sua personale battaglia l’ha ispirata), di rivendicare i suoi diritti di persona e quelli di suo figlio. Tutta la lettera è infatti pervasa da una cultura misogina e maschilista profondamente introiettata, da cui emerge la concezione che, o la donna è completamente sottomessa al maschio (di cui costituisce la proprietà), oppure, nel momento in cui rivendica per sé o per i figli il diritto a vivere come persone libere, è sol per questo squalificata al rango di puttana. La stessa legge che accorda la protezione dalle violenze domestiche è da lui definita “legge delle puttane”, mentre la lucida preordinazione del piano omicida aveva come scopo l’eliminazione “del massimo delle puttane della famiglia”.
Riteniamo utile perciò – in considerazione del fatto che, benché congiunturalmente occorso in Brasile, questo massacro sia solo l’ultimo (in ordine di tempo) anello della catena dei femminicidi che quotidianamente si verificano in ogni parte del mondo – riprendere l’ottimo articolo di Daniela Mussi, pubblicato sulla pagina web Blogjunho, per approfondire una necessaria riflessione sul tema.
La redazione del blog Assalto al Cielo
Massacro di Campinas: un documento della barbarie
Daniela Mussi
Allo scoccare delle ultime ore del 2016, molti in Brasile tiravano un sospiro di sollievo per la fine di un anno pessimo, segnato da colpi che hanno disvelato l’abisso economico, politico, culturale e morale che lentamente e dolorosamente attraversa il Paese.
Il massacro perpetrato a Campinas da un uomo contro la sua ex compagna, suo figlio e un’intera famiglia proprio nel passaggio al nuovo anno mostra, tuttavia, che quel sospiro di sollievo non è altro che un’illusione o, perlomeno, è un latente desiderio di sfuggire a una realtà massacrante. Un desiderio che si è spento anche prima che il fumo dei fuochi d’artificio si disperdesse nell’aria.
L’anno che desideravamo seppellire ha registrato una quotidianità di barbarie che agisce nella soggettività e nelle relazioni sociali man mano che la crisi si acutizza. L’assassinio e la violenza quotidiani contro donne e bambini è una forma particolare con cui si può identificare la barbarie e la sua ripugnanza. La nostra cultura, parafrasando Walter Benjamin, è anche la nostra barbarie.
L’impeachment di Dilma Rousseff è andato in onda in televisione e, tra le diverse “sessioni” dei tre poteri, quella del parlamento del 17 aprile 2016 che ha autorizzato la continuazione del processo di rimozione si è trasformata nel simbolo compiuto della dimensione sessista che accompagna la crisi. Un golpe parlamentare perpetrato in nome della “famiglia” da decine di deputati corrotti che in quest’inizio del 2017 si stanno organizzando per bloccare la piccola vittoria delle donne brasiliane ottenuta attraverso il riconoscimento (timido, peraltro) della legittimità dell’aborto da parte del Supremo Tribunale Federale.
A giugno c’era stato un altro esempio. Un caso di stupro collettivo di una ragazza in una favela di Rio de Janeiro ha scatenato nell’opinione pubblica un intenso dibattito su ciò che è stato definito “cultura dello stupro”. Contro la vittima, reazionarie correnti di opinione hanno sostenuto urbi et orbi l’argomento per cui lei era stata consenziente con gli uomini che la filmavano mentre, nuda e incosciente, ne manipolavano il corpo su di un letto lurido.
A dicembre, un venditore ambulante è stato brutalmente assassinato in una stazione della metropolitana di San Paolo per l’unica sua colpa di aver tentato di difendere un travestito da un assalto omofobico da parte di due uomini che hanno poi continuato a sostenere che la loro condotta era stata solo una “sciocchezza”, rivendicando di essere in fondo “bravi ragazzi”. Pochi mesi prima il video di una brutale aggressione a bastonate di un travestito a Rio de Janeiro è circolato nei social network senza la stessa ripercussione. Benché i grandi mezzi di comunicazione abbiano continuato a definire i due travestiti aggrediti come “omosessuali”, non serve molto per comprendere che essi hanno un’identità di genere femminile. Sono donne.
Nonostante innumerevoli esempi e motivazioni, il femminicidio – l’assassinio, cioè, o il tentativo di assassinio di donne con motivazioni misogine – è una realtà che molti preferiscono non ammettere. In questo caso, la violenza si trasforma in una realtà parallela, un miraggio, qualcosa proprio degli incubi dai quali ci si può svegliare. In un circolo vizioso, il femminicidio si ripete, mostra la sua verità e concretezza, solo per essere negato fino allo sfinimento, finché sembra che non sia mai esistito. Fino alla morte successiva.
L’anno che vogliamo seppellire ci stupisce, come un film nella cui sceneggiatura lo stesso giorno si ripete – gli stessi eventi, le stesse relazioni – senza che sia possibile evitare la ripetizione.
Un documento della barbarie
Prima ancora di compiere il massacro di Campinas, l’assassino, Sidnei Ramis de Araújo, ha scritto una lettera in cui mostra di aver pianificato coscientemente i suoi atti e di aver attribuito ad essi una connotazione non solo personale – o “passionale” – ma chiaramente politica. «Non ho paura di morire o di essere arrestato», così inizia. E, di fatto, l’impunità sull’assassinio di una donna diventa una realtà. Qual è il motivo dell’indignazione di Sidnei? Lo rivela lui stesso: il fatto che la sua ex compagna potesse strappargli dalle mani la “libertà” attraverso la legge. Il fatto che una donna potesse limitare i movimenti e le azioni di “un padre” cercando la protezione dello Stato da lui. Il suo assassinio, del figlio avuto con lui e di coloro che stavano festeggiando con lei l’inizio del nuovo anno – per lo più donne – sarebbe dovuto servire da simbolo della riappropriazione di questa “libertà”. Si tratta, dunque, della documentazione di un crimine politico‑personale.
«Delle teste di cazzo muoiono e uccidono per il calcio (…). Io muoio per la giustizia, la dignità, l’onore e il mio diritto di essere padre». Questo passaggio della lettera lasciata dall’assassino di Isamara Filier e della sua famiglia è esemplare: l’assassinio è giustificato in nome del “diritto di essere padre”. Questa espressione si riscontra in dichiarazioni con cui ci imbattiamo quotidianamente nei discorsi che negano e stigmatizzano il valore dei diritti e della lotta delle donne e del movimento femminista nella costruzione di una società più giusta e democratica in Brasile. Ecco, dal diritto “di essere padre” si giunge al diritto del patriarca. E al patriarcato.
In questo senso, è fondamentale interpretare la visione del mondo su cui si struttura questa violenza, svincolare questo massacro dall’idea che esso è stato perpetrato da un “pazzo”. Si tratta, invece, dell’avanzata degli ideali e della cultura conservatori in Brasile, così come delle conseguenze che quest’avanzata ha per la vita delle persone. Quest’assassinio è la maledizione che ci imprigiona nell’anno 2016 e, perciò, impone l’urgenza di pensare la direzione che deve prendere la società brasiliana, la lotta contro il conservatorismo e il ruolo del femminismo e della ricostruzione della soggettività umana.
“Le troie”
Non è un caso. Non è coincidenza. La lettera dell’assassino del massacro di Campinas definisce individualmente e collettivamente le donne contro le quali è indirizzata: “le troie”. Chi sono le troie? Sono le donne che lottano per i loro diritti e quelli dei loro bambini, che fanno valere la “Legge Maria da Penha”. Le donne che “hanno paura di morire” perché hanno qualcosa per cui vivere. Donne “di pochi anni”, e non si tratta qui meramente di età biologica. Si tratta di un attacco frontale alle donne giovani, politicizzate e che incoraggiano le altre.
La lettera di Sidnei è spaventosamente rivelatrice del risentimento con cui le lotte delle donne per i loro diritti è considerata in tempi di crisi. Di più. Il documento evidenzia, da un lato, il sostegno emergente (o perlomeno potenziale) in seno alla società civile allo smantellamento dei diritti che queste lotte sono state capaci di conquistare. E, dall’altro, un possibile profilo che la marcia per la restaurazione della precedente piena “libertà” misogina può acquistare nella pratica.
Oltre ad essere una tragedia umana, il massacro di Campinas può in questo senso rappresentare un simbolico quadro di inflessione nella già difficile correlazione di forze con cui si scontra il movimento femminista brasiliano. Esso agisce, simbolicamente, come traduzione del colpo subito nel 2016 dalla democrazia brasiliana per la realtà della lotta delle donne. Per questo, ha prodotto il suo proprio documento; ma, come non potrebbe essere altrimenti nella vita delle donne, questo documento è stato firmato col sangue.