La “grande paura”: il biennio rosso
Una rivoluzione mancata, una rivoluzione tradita
Valerio Torre
«L’Internazionale comunista respinge con la massima decisione l’idea che il proletariato possa compiere la propria rivoluzione senza avere un partito politico autonomo. Ogni lotta di classe è lotta politica. Lo scopo di questa lotta […] è la conquista del potere politico».
(II Congresso dell’Internazionale comunista, Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria, in A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori riuniti, 1974, Vol. I, p. 227).
Il contesto internazionale dopo la Prima guerra mondiale
La Prima guerra mondiale aveva prodotto profonde modificazioni nell’organizzazione della produzione, nei rapporti di lavoro, nella composizione della classe operaia. E in più, aveva bruscamente posto fine al ciclo di lotte che dopo il 1907 aveva visto come protagonista il proletariato di Europa e Stati Uniti. La conflittualità sindacale aveva subito un arresto pressoché completo, a causa della militarizzazione dei lavoratori, dell’irrigidimento delle gerarchie aziendali e dell’imposizione di una ferrea disciplina di fabbrica, attraverso cui il padronato aveva imposto nuovi e più pesanti ritmi di lavoro e arretramenti sul versante salariale per poter arrivare a una nuova organizzazione del lavoro in funzione di una maggiore redditività[1].
Tuttavia, a partire dal 1917, questa situazione di riflusso cominciò a modificarsi, sia per l’aggravamento della situazione generale di tutti i Paesi belligeranti, sia per il profilarsi di un fatto inedito, che ebbe enormi ripercussioni sul movimento operaio: la Rivoluzione d’ottobre. Che racchiudeva e intrecciava in sé le rivendicazioni di pace e di un radicale rinnovamento sociale. Così, il 1917 e il ’18 videro l’intensificarsi delle agitazioni sociali e una forte ripresa delle lotte operaie; mentre il biennio 1919-’20, quello che sarebbe poi stato definito “biennio rosso”, segnò un nuovo ciclo ascendente di lotte che interessò Paesi extraeuropei e pressoché tutti quelli del continente europeo[2]. I dati degli scioperi sono significativi[3].
Tuttavia, al di là del dato quantitativo, va segnalata la rilevanza qualitativa delle lotte operaie del biennio: lotte che superarono i limiti della pura rivendicazione sindacale per giungere a mettere in discussione gli aspetti dell’organizzazione padronale del lavoro e della produzione e il regime economico nel suo insieme, fondendo così lotta economica e politica[4].
Ma ciò che il ’19-’20 mise in luce fu, al di là della carica dirompente delle lotte operaie, un nuovo protagonismo delle masse. Oltre al proletariato industriale, irruppero sulla scena politica ampi settori del ceto medio salariato e vasti strati del mondo contadino. Questa forte e generalizzata spinta alla partecipazione politica, animata dal messaggio rivoluzionario dell’Ottobre, si scontrò con la crisi della borghesia, il crollo di imperi secolari e il declino della vecchia Europa. Si apriva, insomma, un periodo di febbrili attese e di grandi speranze di cambiamento.
Il contesto socio-economico in Italia
Nel biennio ’19-’20 l’Italia attraversò una crisi di dimensioni mai conosciute, dovuta agli sconvolgimenti provocati dal conflitto bellico a tutti i livelli della società. Benché vittorioso, il Paese era uscito dalla guerra come se fosse stato vinto: oltre 600.000 morti, altrettanti mutilati e invalidi, più di un milione di feriti. Ma anche con una struttura economico-sociale profondamente trasformata: sebbene conservasse un’economia mista agricolo-industriale, il peso politico acquisito dalla borghesia “produttiva” aveva rovesciato l’equilibrio con gli interessi agrari e l’aveva legittimata come classe dominante, egemonica ai vertici dello Stato.
La guerra aveva infatti stimolato una massiccia dilatazione dell’apparato produttivo, soprattutto dell’industria bellica, cresciuta all’ombra del protezionismo e delle commesse di Stato. Ma, con la fine delle ostilità, si fermò il principale volano dell’economia: l’arresto della produzione bellica non riuscì a tradursi – così com’era nelle intenzioni della borghesia – in una riconversione a scopi civili dell’industria. Ciò determinò una forte disoccupazione di massa in una situazione caratterizzata da un’incontrollata spirale inflazionistica.
Per affrontare la piaga dell’inflazione, governo e padronato, non potendo utilizzare i classici sistemi della stretta creditizia e delle manovre sul tasso di sconto (che avrebbero aggravato la situazione delle imprese) individuarono uno dei metodi che in economia possono mettere in moto il processo di deflazione: spingere al massimo l’attività produttiva. Per incrementare il rendimento del lavoro, dunque, e per placare le agitazioni che paralizzavano l’economia (1.800 scioperi con 1.500.000 di scioperanti nel solo 1919), i capitalisti fecero concessioni agli operai: una nuova legislazione sociale, aumenti salariali, riduzione della giornata lavorativa a otto ore. Ma questi pur importanti risultati conseguiti non bastarono a instaurare quel clima di “collaborazione”[5] su cui la borghesia faceva affidamento per avviare un nuovo ciclo di profitti. Le promesse che la classe dirigente aveva sparso a piene mani per convincere il proletariato e la piccola borghesia a farsi docile carne da macello durante la guerra e a sopportarne il peso non potevano, ovviamente, essere mantenute: le terre promesse ai contadini restavano saldamente in mano agli agrari del nord e ai latifondisti meridionali, mentre gli impegni di miglioramento della collocazione sociale che il governo aveva assunto col ceto medio vennero disattesi. Insomma, il conto del conflitto doveva come sempre essere pagato dalle classi subalterne. Ciò produsse una violenta reazione di queste ultime, per quanto caotica e priva di direzione. Vi furono scioperi nelle industrie, nelle campagne e fra i lavoratori a reddito fisso: insegnanti, magistrati, tecnici e persino polizia. Come vedremo, tutti questi settori lottavano per obiettivi diversi: gli operai per aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro; i braccianti per ottenere il monopolio del collocamento (cioè la riserva statale del mercato del lavoro) e l’imponibile di manodopera (cioè l’obbligo di assumere determinate quote di lavoratori), i mezzadri per ottenere dalla proprietà terriera nuovi patti più favorevoli, i senzaterra per l’occupazione delle terre; dal canto loro, gli appartenenti al ceto medio, in particolare i quadri dell’esercito smobilitati, volevano vedersi riconosciuti i sacrifici fatti al fronte.
Dunque, nel clima autenticamente rivoluzionario che si viveva (la parola d’ordine “Fare come in Russia!” risuonava sempre più frequentemente nelle piazze), grandi masse si erano messe in movimento e tutte ambivano a un reale cambiamento sociale sull’onda degli importanti sommovimenti che si erano realizzati con la rivoluzione d’ottobre. Persino il programma “diciannovista”[6] dei fasci di combattimento di Mussolini, che si candidavano a rappresentare gli interessi di una piccola borghesia radicalizzata ma non ancora schierata su posizioni apertamente reazionarie, era obbligato a darsi contraddittoriamente qualche pennellata progressista per assomigliare a un manifesto riformatore del vecchio ordine sociale.
E mentre la piccola borghesia ritirava il proprio sostegno di massa in precedenza accordato allo Stato liberale determinando una vera crisi di egemonia del blocco dominante, un diffuso spirito anticapitalista e un’autentica insofferenza per le esigenze del regime di fabbrica si facevano strada tra larghe masse di operai che andavano sempre più rifiutando le leggi della produzione capitalistica impedendo ai padroni di poter disporre come in passato della forza lavoro. Fu in questo quadro di nuovi e diversi equilibri sociali, di sofferenza popolare e speranze di cambiamento, che i dirigenti politici e sindacali del movimento operaio furono chiamati a un compito che essi non seppero e non vollero svolgere, fungendo anzi – come vedremo – da utile supporto alle istituzioni statali in crisi.
I moti contro il caro-viveri
E fu proprio in questo quadro che l’ansia di trasformazione che attraversava le classi subalterne sfociò nel primo grande moto rivoluzionario del biennio che stiamo esaminando: quello della primavera-estate del 1919, che, conosciuto come i “moti contro il caro-viveri”[7], scosse le fondamenta dello Stato borghese.
A La Spezia, l’11 giugno del ’19, le masse popolari scesero in piazza per protestare contro la serrata dei grossisti di frutta e verdura. Scavalcando le loro direzioni sindacali, gli operai proclamarono lo sciopero generale manifestando in diecimila per le strade, dove vennero affrontati dai carabinieri che spararono sul corteo uccidendo due lavoratori e ferendone venticinque. Per nulla intimoriti, i manifestanti si scatenarono nell’assalto e nel saccheggio dei negozi, impadronendosi di fatto della città: lo sciopero generale era diventato un moto insurrezionale, mentre nuclei di marinai delle navi da guerra di stanza nel porto fraternizzavano con i proletari. Venne formato un Comitato d’azione che, pensando a come estendere il conflitto ad altre città, si recò a Milano per chiedere istruzioni alla direzione sindacale, la Cgl[8]. Incredibilmente, i dirigenti socialisti ordinarono la calma. Sicché, lo sciopero cominciò a rifluire per cessare del tutto il 17 giugno.
Ma la protesta si estese comunque. Il 13 giugno a Genova, con 50.000 lavoratori in piazza, scontri con la forza pubblica, assalti ai negozi. Il 16 a Pisa e a Bologna. Il 30 a Forlì, dove la folla, con alla testa le donne, assaltò e saccheggiò negozi di frutta, pesce e scarpe e la città rimase totalmente paralizzata dallo sciopero generale del 1° e 2 luglio, mentre venne nominata una Commissione operaia cittadina che requisì le merci riducendone il prezzo alla metà. Sempre il 2 luglio, sciopero generale a Faenza, Ancona e Imola, mentre a Torre Annunziata si registravano scontri con agenti e carabinieri.
Il 3 luglio scese in lotta tutta la popolazione di Firenze, dove gli operai, spontaneamente, proclamarono lo sciopero generale e in migliaia si riversarono alla Camera del Lavoro[9]. La folla, intanto, invase completamente la città requisendo derrate alimentari, stoffe e scarpe, che vennero distribuite ai lavoratori a prezzi inferiori al costo. Ciò che non era venduto veniva trasportato presso la Camera del Lavoro. Il giorno successivo, la città era completamente nelle mani del proletariato. La Camera del Lavoro era diventata, di fatto, il governo di Firenze, ma i suoi dirigenti riformisti non pensavano affatto di occupare i nodi nevralgici della città e anzi emanarono l’ordine di cessazione dello sciopero generale. Ciononostante, l’agitazione spontanea proseguì compatta fino a tutto il giorno 6 luglio, però l’assenza di direzione rivoluzionaria consentì al potere borghese di riprendere fiato: la forza pubblica, fino ad allora rimasta consegnata nelle caserme, iniziò a riprendere il controllo della situazione procedendo a un migliaio di arresti, ma sparando anche sulla folla con un bilancio di due morti e otto feriti e avendo alla fine ragione della lotta di strada.
Intanto, lo sciopero generale infiammava Prato e Pistoia, mentre in tante città dell’Emilia, della Romagna, delle Marche e della Toscana, vennero istituiti “Soviet annonari”. A Palermo, 25.000 operai scesero in sciopero generale e requisirono le merci riducendone il prezzo del 50%. Così pure a Brescia, dove i lavoratori misero in fuga la forza pubblica che sparava sulla folla. A Livorno, il Consiglio generale delle Leghe proclamò lo sciopero generale e ordinò la diminuzione dei prezzi del 50% sui generi alimentari e del 70% sui tessuti. Gli esercizi che non vi si adeguavano venivano immediatamente requisiti dal proletariato. A Piombino venne organizzata una “Guardia rossa” che requisì e distribuì le derrate alimentari.
Genova, in lotta dalla metà di giugno, era attraversata da manifestazioni e scontri di strada che culminarono nella giornata del 7 luglio, quando migliaia di operai saccheggiarono negozi e magazzini affrontando la polizia che sparò uccidendo un lavoratore, ferendone e arrestandone numerosi altri. Lo stesso 7 luglio, a Savona migliaia di operai imposero la riduzione dei prezzi del 50% e poi, costituiti in “Guardia rossa”, controllarono che la ressa ai negozi non si trasformasse in saccheggi.
La provincia di Bari e tutta l’Umbria erano paralizzate dallo sciopero generale. A Messina la popolazione svuotò i negozi e consegnò le merci alla Camera del Lavoro. Sciopero generale a Taranto, Spoleto, Civitavecchia e centinaia di altre città, grandi e piccole, da nord a sud. Barletta venne occupata dai proletari e governata per quattro giorni dai “Consigli del Lavoro”. Solo il 10 luglio, cinta d’assedio, la cittadina si arrese alle truppe.
Come si vede, l’Italia intera fu come attraversata da una striscia di fuoco, ma a partire dal 10 luglio la lotta cominciò a rifluire dappertutto. Le istituzioni borghesi tirarono un sospiro di sollievo e scatenarono una brutale repressione poliziesca: arresti di massa ed eccidi si verificarono in numerose città.
Il ruolo dei socialisti nei moti popolari
Il governo fu sorpreso dalla contemporaneità e dalla generalità dei moti e scelse una tattica difensiva, non potendo, per fronteggiare le proteste di piazza, utilizzare i carabinieri, il cui numero era ridotto per le perdite subite in guerra; e, d’altra parte, non voleva servirsi dell’esercito regolare per il concreto timore di fraternizzazione fra la truppa e i manifestanti.
Per ingabbiare e poi domare i moti insurrezionali si servì invece della docile collaborazione dei dirigenti socialisti delle Camere del Lavoro e del Partito socialista: benché le masse popolari vedessero nei loro organismi di rappresentanza gli unici organi del loro potere, quegli organismi presero le distanze dai moti e dalle rivendicazioni di pianificazione e controllo operaio sulla distribuzione avanzate dai lavoratori (il giornale socialista L’Avanti definiva “teppisti” i manifestanti[10]); anzi, rifiutarono espressamente di dirigere un processo in cui gli insorti scavalcavano i poteri pubblici imponendo decreti in nome del popolo e organizzando anche embrioni di organismi di difesa popolare (le Guardie rosse). Addirittura, anni dopo gli eventi, per bocca di Ludovico D’Aragona, segretario della Cgl, i dirigenti del Psi si attribuirono «l’onore di aver impedito un’esplosione rivoluzionaria»[11].
Ma se questo fu il ruolo nefasto dei dirigenti socialisti riformisti, non meno negativo fu quello della sinistra socialista. Il gruppo dell’Ordine Nuovo di Gramsci dedicò uno spazio pressoché irrilevante ai moti, sicuramente sproporzionato rispetto alla loro valenza rivoluzionaria. Pur facendone risalire le ragioni alla guerra imperialista da poco finita, gli ordinovisti non esitarono a definirli un «episodio tumultuoso, grottesco, barbarico della lotta di classe»[12]. In questo senso, non si differenziarono realmente dalla direzione riformista.
Lo stesso sciopero generale internazionale proclamato per il 20 e 21 luglio dai sindacati europei in solidarietà alle repubbliche sovietiche di Russia e Ungheria era stato interpretato dal proletariato italiano come il momento decisivo per la rivoluzione: i lavoratori davvero credevano che il Psi stesse preparando l’insurrezione generale. Ma i dirigenti, preoccupati da questa piega, si affrettarono con articoli e assemblee a fare opera di pompieraggio spiegando che lo sciopero avrebbe avuto carattere esclusivamente dimostrativo. E anche in questo caso non si distinse la frazione comunista: Gramsci, su L’Ordine Nuovo, raccomandava che lo sciopero terminasse esattamente «alla mezzanotte del 21», sostenendo inoltre: «un movimento insurrezionale oggi significherebbe solo […] una repressione feroce». Lo sciopero paralizzò per due giorni l’Italia, ma non ebbe alcuno sbocco, generando nella classe lavoratrice un diffuso senso di delusione e scoramento.
Le lotte contadine: la “rivoluzione mancata” nelle campagne
Potremmo definire gli avvenimenti del giugno-luglio 1919 come una “rivoluzione senza capi”, o meglio con a capo del movimento dirigenti socialisti borghesi[13], che avranno poi un ruolo negativo anche nelle lotte contadine del biennio ’19-’20.
Solo di passata – e per dare una vista d’insieme del quadro complessivo della lotta di classe in Italia in quel periodo – va detto che, nonostante l’impetuoso sviluppo dell’apparato industriale, il Paese aveva ancora in maggioranza un carattere sostanzialmente agricolo, con almeno il 55% della popolazione dedita all’agricoltura.
Vaste masse contadine meridionali, tornate dalla guerra con la promessa – rivelatasi vana, come abbiamo già visto – dell’assegnazione di un pezzo di terra, nutrivano la speranza di un reale cambiamento delle proprie condizioni di vita. Ciò non accadde, sicché fu quasi automatica, nel clima rivoluzionario che si respirava nel Paese, la loro forte radicalizzazione.
Nei mesi di luglio e agosto del 1919 il fenomeno dell’occupazione delle terre dilagò dall’Agro romano fino alla Sicilia, mentre sorgevano in tante parti Leghe dei lavoratori. Intanto, le lotte contadine scoppiavano in tutto il nord del Paese, fra i braccianti della pianura padana (Emilia, basso Piemonte, bassa Lombardia, cremonese), i mezzadri (Emilia, Toscana, trevigiano, umbro-marchigiano), gli affittuari (bergamasco e alto Veneto), ciascuno con le proprie specifiche rivendicazioni.
Il governo dapprima cercò di frenare il movimento ingabbiandolo nei lavori di un’apposita commissione incaricata di esaminare la possibilità di assegnare terreni a cooperative; poi, di fronte all’impazienza dei lavoratori, approvò una legge che prevedeva sanzioni penali contro le invasioni di terre.
Nonostante la durissima repressione scatenata dalla forza pubblica, una vasta ondata di occupazioni si verificò nell’agro laziale, in Puglia, in Sicilia, mentre scesero in sciopero i mezzadri e i coloni del centro e nord Italia, con occupazioni di cascine, municipi, telegrafi e ferrovie, distruzioni di raccolti e violenze contro i proprietari terrieri.
La lotta contadina, però, non solo non si saldò mai organicamente con il movimento operaio, ma non fece il salto che era necessario a causa dell’esplicita contrarietà dei dirigenti socialisti alla rivendicazione popolare (che rivestiva un carattere oggettivamente eversivo) della terra ai contadini. La parola d’ordine “la terra a chi la lavora!”, cioè, sottintendeva l’espropriazione dei proprietari terrieri e il capovolgimento dei rapporti di proprietà e avrebbe potuto incarnare quella piattaforma unificante fra le diverse agitazioni che scuotevano il mondo contadino. Eppure, soprattutto le lotte contadine in Emilia furono quelle che condussero i lavoratori sulla soglia della rivoluzione: nelle campagne del bolognese, le Leghe erano diventate di fatto le uniche autorità riconosciute, con la prefettura ormai esautorata e i contadini che attendevano solo la presa di possesso di tutta la terra. Ma, quando nel luglio del 1920 il governo emanò il decreto di requisizione dei raccolti che deperivano sui campi per lo sciopero dei lavoratori, i socialisti, localmente padroni della situazione, invece di lanciare l’attacco finale, appoggiarono il decreto «nell’interesse della produzione».
E non sarà casuale, allora, che proprio in quelle zone, dove la vittoria rivoluzionaria sembrò la più prossima e dove il padronato fu maggiormente terrorizzato dalla paura di perdere tutto, la reazione degli agrari sarà in seguito particolarmente violenta grazie allo squadrismo fascista e finirà per coinvolgere anche quegli strati contadini intermedi che, non avendo potuto ottenere la terra per via rivoluzionaria, cercheranno poi di risolvere il problema individualmente sotto l’ombrello della violenza agraria.
La rivolta dei bersaglieri di Ancona
Un altro episodio su cui è opportuno soffermarsi brevemente è quello passato alla storia come “la rivolta dei bersaglieri”.
L’Italia manteneva nell’isola di Valona, in Albania, un corpo di spedizione militare d’occupazione che doveva fronteggiare, oltre a un’epidemia di malaria, le sempre più frequenti incursioni armate dei ribelli locali. Nella notte tra il 25 e il 26 giugno 1920, i bersaglieri della Caserma Villarey di Ancona, temendo di essere inviati in Albania, disarmarono i propri superiori e assunsero il controllo della caserma. I militari ribelli, agendo di concerto con gruppi anarchici, repubblicani e socialisti della città, contribuirono all’estensione della rivolta prima in tutta Ancona e nelle cittadine limitrofe, poi in tutte le Marche, in Romagna e in Umbria. A Milano e Roma vennero proclamati scioperi di solidarietà con gli insorti, mentre il sindacato dei ferrovieri scese in sciopero per impedire che ad Ancona arrivassero le guardie regie[14]. Nella città marchigiana, con l’appoggio di buona parte della popolazione civile e dei lavoratori (specialmente i portuali), i ribelli innalzarono barricate per opporsi agli assalti delle forze dell’ordine. Si registrarono ovunque scontri a fuoco tra rivoltosi e carabinieri, con perdite da ambo le parti. I bersaglieri e i loro simpatizzanti fecero anche uso di mitragliatrici.
Mentre i soldati del 17° reggimento di fanteria di Ascoli fraternizzavano con i ribelli, il governo riuscì comunque a far giungere rinforzi di guardie regie in città, ordinando che Ancona fosse bombardata dal mare da cinque cacciatorpediniere inviate appositamente per porre fine alla sommossa.
La mattina del 28 giugno, infine, la resistenza degli ammutinati fu vinta dalle truppe governative. Molti furono i morti, il cui numero è rimasto imprecisato, e oltre 500 gli arrestati.
Anche in quest’occasione, la preparazione e l’attuazione dell’insurrezione e dell’ammutinamento furono opera spontanea di gruppi di operai e giovani, anarchici e militanti di base socialisti, senza che il partito avesse fatto nulla per intervenire, se non – verso la fine della rivolta – attraverso il solito tentativo di mediazione di due deputati, respinti però sotto la minaccia del fucile dagli insorti che non nutrivano più la minima fiducia nei dirigenti socialisti.
La lezione del Partito bolscevico, dell’attuazione del necessario lavoro politico fra le truppe, finalizzato alla rottura della base dei militari con la loro catena di comando, non era stata neanche minimamente imparata.
Le lotte operaie: lo “sciopero delle lancette”
E dunque, a metà del 1920 la tensione rivoluzionaria in Italia era all’apice: come abbiamo visto da questi che sono stati i principali episodi di lotta di classe – ma decine e decine di altri avvenimenti potrebbero essere raccontati per dare il senso del clima che giunse a viversi in quel periodo – le masse erano radicalizzate e disponibili alla battaglia decisiva.
Intanto, i primi mesi del 1920 erano trascorsi in un crescendo di agitazioni molto radicali. Al di là dell’impressionante numero di vertenze (la sola Fiat aveva avuto in sei mesi tre vertenze interne al giorno, senza contare gli scioperi nazionali e quelli a carattere politico), la novità stava in un diverso protagonismo della classe operaia attraverso i Consigli di fabbrica che via via prendevano il posto delle vecchie Commissioni interne, caratterizzate maggiormente come strumento di collaborazione fra datori e prestatori di lavoro. I nuovi organismi, invece, esprimevano più spiccatamente gli interessi dei lavoratori, e andavano via via trasformandosi in embrioni di controllo operaio.
Gli industriali compresero presto che ciò che era in gioco era il potere nella fabbrica. E lo espresse molto chiaramente l’industriale Olivetti quando, nell’assemblea generale della Confindustria a Milano, proclamò: «In officina non possono sussistere due poteri!»[15]. I giornali borghesi precisarono ulteriormente questo concetto, se mai ce ne fosse stato bisogno: il quotidiano La Stampa scrisse che gli industriali «sapendo di difendere non tanto la loro causa, quanto quella dell’assetto sociale odierno, sono decisi a proseguire nel loro atteggiamento fino alle estreme conseguenze». Gli industriali passarono dunque dalla posizione più conciliativa tenuta l’anno precedente a una molto più intransigente, esprimendosi apertamente contro i Consigli di fabbrica e aspettando l’occasione per regolare i conti.
Quest’occasione si presentò loro quando il governo fissò, a partire dal 21 marzo, l’inizio dell’ora legale.
Gli operai trovavano insopportabile essere costretti a uscire di casa al buio[16], sicché il giorno seguente – siamo al 22 marzo – la Commissione interna della Fiat decise di spostare le lancette dell’orologio nuovamente sull’ora solare. Ciò che era in gioco non era una questione d’orario, ma di potere nella fabbrica, e la direzione della Fiat, che lo aveva compreso bene, non si lasciò sfuggire l’occasione e licenziò i tre componenti dell’organismo. Immediatamente, i lavoratori scesero in sciopero rivendicandone la riassunzione. Fu quello che venne conosciuto come lo “sciopero delle lancette”[17].
Dopo un’intera giornata di sterili trattative, gli operai, stanchi del tira e molla, occuparono la fabbrica. L’occupazione si estese anche a un altro stabilimento della Fiat. Il 25 marzo, l’azienda riuscì a far entrare da un ingresso secondario le forze dell’ordine che sgomberarono la fabbrica. Il 27 marzo, per evitare che la proprietà attuasse la serrata, gli operai decisero di rientrare al lavoro attuando però una nuova forma di lotta, lo sciopero bianco, consistente nel rallentare fortemente le operazioni mediante l’ostruzionismo, in modo da abbassare di molto il tasso di produttività. L’azienda ne venne realmente danneggiata, e così altre 44 officine meccaniche in cui venne attuato lo stesso sciopero bianco in segno di solidarietà.
Ripresero le trattative, ma con una novità: esse furono avocate dal segretario nazionale della Fiom, Bruno Buozzi, che volle così esautorare di fatto il sindacato locale avendo ben compreso che il nodo di fondo erano i poteri dei Consigli nelle fabbriche e, in senso più generale, i rapporti fra gli ordinovisti torinesi di Gramsci e gli organismi centrali del Partito socialista. Dopo giorni di trattativa, il negoziato giunse a un punto morto. Sotto la spinta della base operaia, il sindacato fu costretto controvoglia a proclamare il 14 aprile lo sciopero generale. Si trattò del più lungo e compatto sciopero mai verificatosi fino ad allora nella storia del movimento operaio italiano.
La direzione politica del movimento venne affidata a un Comitato di agitazione di fatto egemonizzato dagli ordinovisti. Frattanto, Buozzi e altri sindacalisti non avevano interrotto per un solo momento i contatti con la controparte padronale.
Gli ordinovisti, che pure dimostravano una grande improvvisazione nel condurre questa battaglia[18], avevano compreso che lo sciopero – che intanto il giorno 19 aprile si era esteso a tutto il Piemonte coinvolgendo 500.000 lavoratori – non sarebbe potuto continuare all’infinito e si posero il problema di unificare la lotta operaia con le agitazioni contadine che negli stessi giorni si sviluppavano nella regione. Ma il tentativo fallì per l’opposizione dei dirigenti del sindacato. A questo punto, Gramsci e i suoi nutrirono l’ingenua illusione che il Psi potesse emanare l’ordine dell’estensione a livello nazionale dello sciopero. Figuriamoci se i dirigenti riformisti del partito volevano una cosa del genere! Il Consiglio nazionale del Partito socialista, non solo si oppose alla pubblicazione su L’Avanti! dell’appello della sezione torinese che chiedeva la solidarietà del proletariato italiano, quanto decise invece di inviare a Torino il segretario generale della Cgl, D’Aragona, perché intervenisse in prima persona.
Rimasta isolata la lotta, il braccio di ferro fra D’Aragona e il Comitato di agitazione si concluse con l’affermazione del primo che chiuse con gli industriali un accordo che sconfessava totalmente il ruolo delle Commissioni interne e dei Consigli di fabbrica[19]. Il 24 aprile lo sciopero fu revocato: il padronato aveva vinto con l’aiuto dei dirigenti del movimento operaio.
Antonio Gramsci scriverà poi che la classe operaia torinese non era uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta[20].
Se ne accorse subito la borghesia che aveva cantato il de profundis del movimento operaio preconizzando troppo presto la fine degli scioperi politici. Infatti, il 1° maggio 1920, dopo soli sei giorni dalla conclusione dello sciopero generale, il proletariato torinese diede luogo a un’imponente manifestazione. Il corteo venne affrontato dalla forza pubblica che sparò ad altezza d’uomo uccidendo due lavoratori. Ma gli operai reagirono assaltando le camionette dei carabinieri e, armi in pugno, si scontrarono con le forze di polizia uccidendo un agente e ferendone molti altri.
Il quotidiano La Stampa scrisse che la rivoluzione era nei programmi solo di un’esigua minoranza invitando il sindacato a sbarazzarsi della retorica e a frenare le pulsioni “anarchiche”. Ma la Cgl non aveva certo aspettato quest’invito: aveva già messo in atto una decisa politica di intervento nei confronti di quella “anarchia operaia” che tanto aveva spaventato la borghesia.
Settembre 1920: l’occupazione delle fabbriche e la “rivoluzione tradita”
La sconfitta dello sciopero di aprile rafforzò negli industriali la convinzione che solo una posizione intransigente avrebbe impedito ai lavoratori di rialzare la testa: una dura repressione nelle fabbriche si abbatté sugli operai per poterli lentamente ma inesorabilmente schiacciare. Tuttavia, la loro volontà di lotta era, come poi vedremo, tutt’altro che spezzata.
In questo quadro, la Fiom aveva convocato per il 20 maggio 1920 un congresso straordinario in cui venne redatto un memoriale contenente rivendicazioni economiche per adeguare i salari dei metalmeccanici all’aumentato costo della vita. La Fiom riteneva che il malcontento operaio nascesse dall’aumento vertiginoso del costo della vita, per cui – una volta rimossa questa causa – sarebbe stato possibile tornare alla normalità produttiva; e d’altro canto pensava che gli industriali non si sarebbero opposti a un accordo nell’interesse dell’aumento della produttività. Ma c’era anche un calcolo sottile alla base della vertenza che i dirigenti sindacali intendevano avanzare: l’idea che essa potesse costituire uno sfogo per l’insoddisfazione operaia, ridando credibilità e autorevolezza all’organizzazione dopo il tradimento dello sciopero generale di aprile.
Questo calcolo, però, non teneva conto di due variabili: che l’insubordinazione operaia aveva radici molto più profonde e andava al di là delle pure e semplici rivendicazioni salariali; e che gli industriali si erano ormai attestati su una posizione di rigida intransigenza con la quale ritenevano di poter schiacciare la resistenza dei lavoratori e riprendere il controllo totale nelle fabbriche attraverso una prova di forza.
E infatti, il padronato rifiutò addirittura di iniziare il confronto sul memoriale e respinse ogni ipotesi di trattativa. Alla Fiom non restò che proclamare l’ostruzionismo sul lavoro come arma di pressione per presentare come irragionevole dinanzi all’opinione pubblica l’atteggiamento di chiusura degli industriali.
A partire dal 20 agosto, 400.000 metalmeccanici in tutta Italia entrarono in lotta, dando vita a un’agitazione su tutto il territorio nazionale.
L’ostruzionismo fu particolarmente efficace, tanto da far calare drasticamente la produzione (alla Fiat Centro, dove lavoravano 15.000 operai, scese del 60%). E allora scattò la reazione padronale.
Il 30 agosto, a Milano, venne attuata la serrata nello stabilimento della Romeo. Su ordine della Fiom, gli operai che ancora si trovavano all’interno della fabbrica la occuparono. Lo stesso accadde simultaneamente nei 300 stabilimenti di Milano. La richiesta degli industriali al governo di intervento militare per far sgombrare le fabbriche venne respinta: il primo ministro Giolitti – come in seguito avrebbe dichiarato al Senato[21] – voleva evitare un conflitto armato che temeva sarebbe potuto sfociare in una guerra civile; ma confidava anche sul fatto che alla testa di quel grandioso movimento vi erano dirigenti riformisti che non volevano che il processo si estendesse dalle fabbriche ai centri nevralgici del potere, telegrafi, telefoni, ferrovie, caserme, prefetture. Eppure, quel movimento si allargò, nonostante e contro gli intenti conciliativi della dirigenza riformista, dal triangolo industriale del nord (Milano-Torino-Genova) all’Emilia, al Veneto, alla Toscana, all’Umbria, fino alle città di Ancona, Roma, Napoli e Palermo. Nella sola Torino quasi 150.000 furono gli occupanti, 100.000 a Genova[22], 600.000 in tutta Italia quando anche officine non metallurgiche vennero occupate. Spontaneamente, nel sud del Paese ripresero massicciamente le occupazioni delle terre.
Una delle novità di questa lotta stava nella gestione operaia: fra lo stupore degli industriali – che mai avrebbero immaginato che gli operai fossero capaci di affrontare le difficoltà tecniche della produzione – gli occupanti misero in piedi un gigantesco esperimento di gestione operaia della fabbrica in un settore di primo piano dell’economia capitalistica e facendo fronte al sabotaggio attivo degli industriali, delle banche e dello Stato. A Torino venne creato un comitato per centralizzare la produzione, gli scambi e le forniture dei prodotti finiti. Vennero assunti nuovi impiegati amministrativi di fronte al rifiuto a collaborare da parte di quelli in servizio. L’altro fatto nuovo del movimento di occupazione era dato dalla difesa degli stabilimenti[23]. In alcune delle officine si fabbricarono bombe a mano, elmetti e parti staccate di armi. In altre, gli operai si provvidero di mitragliatrici. Altrove si tentò di costruire un autoblindo. Sui tetti delle fabbriche vennero installati riflettori, molti accessi alle officine furono minati e controllati da sistemi di segnalazione e allarme. Lo stabilimento della Fiat Lingotto era difeso da una recinzione con corrente elettrica; quello di Barriera di Nizza da un impianto ad aria compressa in grado di sparare acido contenuto in un’enorme vasca. La difesa delle fabbriche era in generale affidata alle Guardie rosse.
L’estensione dell’occupazione avrebbe richiesto a quel punto un salto di qualità, che legasse cioè l’azione del proletariato industriale a quello agricolo e a vasti settori di ceto medio per uscire dalle fabbriche e puntare alla conquista dei centri nevralgici del potere. Insomma, l’insurrezione armata. Ma per questo sarebbe occorsa un’autorevole direzione rivoluzionaria che avesse unificato e centralizzato le lotte con l’obiettivo della presa del potere: un compito che la Cgl, la Fiom e il Psi non volevano assumere e per il quale anarchici, bordighisti e ordinovisti erano del tutto inadeguati.
Le direzioni del sindacato e del partito, invece, volevano che la vertenza uscisse dalla dimensione politica (che, al di là delle loro intenzioni, aveva assunto) per ricondurla nei suoi limiti rivendicativi economici.
Per questo il 9, 10 e 11 settembre, si svolsero delle drammatiche e tese riunioni per individuare una soluzione alla vicenda. In altri termini, si sarebbe dovuto decidere se l’agitazione in corso fosse dovuta restare nel solco di una lotta sindacale; oppure, se essa avesse dovuto estendersi per assumere la caratteristica di un movimento insurrezionale. Nel primo caso, la sua direzione sarebbe spettata alla Fiom e alla Cgl; nel secondo al Psi.
In realtà, il fatto stesso che i destini di una rivoluzione venissero affidati a una discussione così surreale[24] dimostra, al di là di ogni dubbio, la scarsa convinzione con cui la proposta insurrezionale era sostenuta, non solo dalla direzione ma anche dalle componenti della sinistra. Di fatto, tutti volevano soltanto uscire da una situazione che li aveva posti spalle al muro: non solo la direzione del Psi voleva districarsi dal pasticcio in cui si era cacciata con l’inconcludente fraseologia rivoluzionaria con la quale aveva nutrito le masse operaie rimanendo poi prigioniera dell’immagine pubblica che si era costruita; ma gli stessi ordinovisti non desideravano la precipitazione dello scontro[25], convinti che le condizioni per la rivoluzione non fossero ancora mature e che l’insurrezione armata dovesse essere posta all’ordine del giorno solo dopo la scissione dal Psi e la costituzione del Partito comunista, dando così una lettura burocratica del processo rivoluzionario e staccandosi da quello reale in corso.
Fu così che, quando la direzione riformista del sindacato, dichiarandosi in disaccordo con l’insurrezione, minacciò le proprie dimissioni in blocco e invitò la direzione del partito ad assumere la guida del movimento, quest’ultima intravide lo spiraglio per uscire dalla difficile situazione: respingere le dimissioni della direzione della Cgl votando a maggioranza un ordine del giorno che lasciava la gestione della vertenza al sindacato (cancellandone dunque l’aspetto politico) e che di fatto metteva la parola fine alla lotta in cambio del riconoscimento da parte padronale del principio del controllo sindacale delle aziende.
Si trattava, naturalmente, di parole vuote. E lo capì benissimo Giolitti, che fino a quel punto era rimasto totalmente estraneo alla vertenza per timore che una repressione armata da parte dell’esercito potesse scatenare la guerra civile.
Non appena vide che la prospettiva insurrezionale era stata ufficialmente abbandonata dai socialisti, Giolitti rientrò in gioco convocando fra le parti una riunione che si concluse il 20 settembre con un accordo che sanciva la fine dell’occupazione delle fabbriche e prevedeva alcuni miglioramenti economici e salariali per i lavoratori e la promessa di incaricare una commissione di studio per elaborare un disegno di legge sul controllo operaio.
Insomma, 600.000 operai occupavano le fabbriche, controllavano in armi alcune grandi città, di fatto detenendo parzialmente il potere, e, traditi dai loro dirigenti, rinunciarono a prenderlo definitivamente nelle loro mani in cambio di un disegno di legge che poi, naturalmente, rimase nei cassetti della commissione nominata.
In quel settembre del 1920, la borghesia italiana visse quella che fu definita “la grande paura”, la paura di perdere tutto. Fra tutti i Paesi del continente europeo, fu in Italia, dunque, che si verificò il più violento e pericoloso attacco al suo potere. Il biennio rosso fece comprendere ai capitalisti che le vecchie classi dirigenti liberali non erano più in grado di difendere i loro interessi. Occorreva allora sconfiggere definitivamente la classe operaia sul piano dei rapporti sociali puntando su un’alternativa politica e istituzionale. Il progetto per risollevare le fortune della borghesia sarebbe di lì a poco passato per la più nuova, oppressiva e inaudita forma di dominio politico che si fosse fino ad allora mai vista: il fascismo.
Conclusione: il ruolo controrivoluzionario dei riformisti e la mancanza di una direzione rivoluzionaria conseguente delle lotte
Dopo l’accordo del 20 settembre, le occupazioni durarono ancora per una decina di giorni, ma proprio in quel periodo si verificò il maggior numero di scontri armati fra gli operai e le guardie regie, con morti da entrambe le parti. Si trattò in realtà di una rabbiosa quanto disperata reazione da parte delle avanguardie degli occupanti alla notizia della stipula del concordato: l’idea di dover abbandonare le fabbriche che con tanti sacrifici avevano tenuto – e senza aver conseguito alcun reale avanzamento politico – appariva una beffa insopportabile.
Già durante la fase delle trattative fra sindacati, industriali e governo, la maggior parte delle fabbriche si era espressa per il rifiuto dell’ipotesi di accordo e per la continuazione dell’occupazione, mentre la parte più arretrata degli operai – di cui in quella circostanza furono proprio gli ordinovisti a farsi interpreti – pur non essendo soddisfatta del concordato, votò per la sua accettazione subordinandola a due pregiudiziali che i socialisti dell’Ordine Nuovo avevano elaborato: pagamento delle giornate di occupazione e garanzia che la decisione finale sarebbe stata demandata alle assemblee di fabbrica. Anzi, va segnalato che la rivista di Gramsci non dedicò alcun commento al modo in cui l’occupazione si era conclusa: gli unici articoli che vi fecero riferimento ne parlavano come di una battaglia vittoriosa.
Eppure, qualche tempo dopo, la vicenda del settembre del ’20 fu utilizzata dagli ordinovisti in chiave polemica contro la direzione del Psi, accusata di inettitudine e opportunismo[26].
Pur essendo incontestabile la responsabilità dei dirigenti socialisti nella “rivoluzione mancata”, gli argomenti portati da Gramsci e dai suoi soffrono una vistosa contraddizione: se, come gli stessi ordinovisti sostenevano, la situazione di settembre non era matura per uno scoppio insurrezionale, allora le decisioni della direzione del Psi avrebbero dovuto essere ritenute prudenti e sagge, così come irresponsabili e demagogiche invece le opinioni di chi vi si oppose. Il fatto è che nessuna delle tendenze che convivevano nel Psi volle o seppe offrire alla generosa azione delle masse operaie un’autentica prospettiva rivoluzionaria, uno sbocco che non fosse quello di una pura e semplice capitolazione[27].
Si trattava pur sempre di quel partito un cui dirigente, Costantino Lazzari, massimalista di sinistra, a Lenin che gli raccomandava di occupare le fabbriche dopo accurata preparazione, rispose: «Sì, l’idea è giusta, ma poi … che ne facciamo degli industriali?». E quando Lenin, senza mezzi termini, replicò: «Liquidateli!», lui mostrandosi preoccupato della loro sorte, si giustificò in dialetto milanese: «Ma scior Lenin, num milanes semm brava gent!»[28].
E fu proprio Lenin, al III Congresso dell’Internazionale comunista, nel giugno del 1921, ad avanzare – quando il Pcd’I era già stato fondato – lo sferzante interrogativo «Durante l’occupazione delle fabbriche si è forse rivelato un solo comunista?»[29]. Accusa, questa, implicitamente rivolta anche alle tendenze di sinistra del Psi che non furono all’altezza di ciò che la situazione del settembre avrebbe richiesto: assumersi di fronte alle masse, che erano disposte a qualsiasi sacrificio pur di cambiare radicalmente la società italiana, l’onere e la responsabilità di farsi direzione rivoluzionaria della più straordinaria lotta di quel biennio, di incarnare la guida che avrebbe potuto condurre la battaglia per il potere.
Ecco perché, nel 1924, del tutto ingenerosamente, Antonio Gramsci dipingeva quella che quattro anni prima occupava e difendeva in armi le fabbriche «una classe operaia che […] vedeva tutto roseo e amava le canzoni e le fanfare più dei sacrifici»[30]. Ed ecco perché, qualche decennio più tardi, Palmiro Togliatti sminuiva la carica rivoluzionaria di quei lavoratori che nel settembre del ’20 terrorizzarono la borghesia, sostenendo che «la punta più alta del movimento fu toccata nella primavera del 1920, […] [mentre] quando iniziò l’occupazione delle fabbriche […] vi erano già segni di stanchezza»[31]. Sono tutti, a ben vedere, argomenti per scrollarsi di dosso una responsabilità storica[32].
Ed è per questo che la giusta definizione del biennio rosso come “rivoluzione mancata” dovrebbe essere integrata da quella di “rivoluzione tradita”.
In questo senso, appare insuperabile il giudizio che, dell’esperienza dell’occupazione delle fabbriche e, più in generale, del biennio rosso, diede Trotsky: «Tra i lavoratori italiani […] le idee e i metodi della rivoluzione russa avevano incontrato un enorme favore. Il Partito socialista italiano, tuttavia, non aveva tenuto sufficientemente conto della natura di queste concezioni […] Nel settembre del 1920 la classe operaia italiana, in effetti, aveva assunto il controllo dello Stato, della società, delle fabbriche, degli impianti, delle imprese. Che cosa mancava? Mancava un’inezia, mancava un partito, che poggiando sul proletariato rivoluzionario ingaggiasse una lotta aperta con la borghesia per distruggere i residui delle forze materiali ancora nelle mani di quest’ultima, prendere il potere e arrivare alla vittoria della classe operaia. In realtà, la classe operaia aveva conquistato, o virtualmente conquistato il potere, ma non c’era alcuna organizzazione capace di consolidare definitivamente la vittoria […], il proletariato fu sconfitto […]. Il fascismo è la rivincita, la vendetta attuata dalla borghesia per il panico vissuto nel settembre del ’20 e nello stesso tempo è una lezione tragica per il proletariato italiano, una lezione su ciò che deve essere un partito politico, centralizzato, unito e con le idee chiare. Un partito che deve essere cauto nella scelta delle condizioni, ma anche risolutamente deciso nell’applicazione dei metodi necessari nell’ora decisiva»[33].
Note
[1] C. Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo, Editori riuniti, p. 22.
[2] «Tutta l’Europa è pervasa da uno spirito rivoluzionario. Tra i lavoratori c’è un profondo senso non solo di malcontento ma di collera e di rivolta contro le condizioni prebelliche. Tutto l’ordine esistente nei suoi aspetti politici, sociali ed economici viene messo in causa dalle masse della popolazione da un capo all’altro dell’Europa»: così un memorandum confidenziale inviato da Lloyd George, premier britannico, a Clémenceau, primo ministro francese, citato da S. Corvisieri, Il biennio rosso 1919–1920 della Terza Internazionale, Edizioni Jaca Book, p. 53.
[3] In Germania si passò dai 6,3 milioni di giornate di lavoro perdute di prima della guerra ai 32,5 milioni del solo 1919; in Francia dai 3,4 ai 15,4 milioni; in Spagna da 1,2 a 4 milioni; in Inghilterra da 15 a 34,9 milioni; negli Usa si passò dai 723.000 scioperanti di prima della guerra ai 4.160.000 del 1919.
[4] R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne in Italia, Savelli, vol. III, pp. 60–61.
[5] G. Maione, Il biennio rosso. Autonomia e spontaneità operaia nel 1919–1920, Società editrice Il Mulino, pp. 7–8, spiega che, in funzione della fase ascendente del ciclo economico, gli imprenditori erano disposti, in cambio di un periodo di tranquillità, a fare concessioni tese a instaurare con i sindacati rapporti non più di ostilità, ma di collaborazione.
[6] Il programma “diciannovista” (cioè del fascismo nel 1919), meglio conosciuto come “programma di San Sepolcro”, rappresentò formalmente l’atto di nascita del fascismo italiano, la piattaforma politica su cui, il 23 marzo 1919, nacquero a Milano, appunto in piazza San Sepolcro, i “Fasci di combattimento”, l’organizzazione politica di Benito Mussolini. Si trattava sostanzialmente di una serie di rivendicazioni demagogiche che andavano dal repubblicanesimo all’antiparlamentarismo e all’anticlericalismo per potere così scavalcare a sinistra il partito socialista; ma alle quali se ne univano altre di stampo ultranazionalistico. Il programma di San Sepolcro si caratterizzava in ogni caso per la sua matrice antiliberale da un lato, e ferocemente antibolscevica dall’altro, sicché «nascondeva già una sostanza tendenzialmente reazionaria» (R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, Società editrice Il Mulino, vol. I, p. 336). Ma proprio il fatto che in quel programma vi fossero rivendicazioni apparentemente “progressiste” ha aperto la strada al fiorire di una odierna storiografia revisionista che distingue il “fascismo-movimento” dal “fascismo-regime”, attribuendo al primo caratteristiche ”positive” e lasciando quelle “negative” solo al secondo, quasi che questo si fosse trasformato in una sorta di “tradimento” del suo precursore. Tuttavia, è curioso notare che una significativa spinta a questa ricostruzione, tanto infondata quanto interessata alla riabilitazione del fascismo, trova le sue origini in una fonte apparentemente insospettabile. Nell’agosto del 1936, veniva pubblicato su Lo Stato Operaio, organo del Partito comunista in clandestinità, lo stupefacente “Appello ai fratelli in camicia nera”, firmato da Togliatti e da tutto lo stato maggiore del Pcd’I e direttamente concordato con Mosca e i dirigenti del Comintern, in cui si proclamava solennemente: «Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma … Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919»! È vero che la “storiografia ufficiale” del Pcd’I ha ripetutamente cercato di scagionare Togliatti sostenendo, sulla base di alcune testimonianze, che egli nulla sapeva del testo e che la sua firma sarebbe stata apposta in calce all’appello per iniziativa di Ruggero Grieco, segretario del partito dal 1935 al 1937. Tuttavia, questa tesi è stata smentita con dovizia di argomentazioni, in particolare, da L. Candreva nel documentatissimo articolo “La ‘coglioneria’ di Togliatti. Il Pci e l’appello ai ‘fratelli in camicia nera’”, pubblicato nella rivista Zapruder, n. 35, set.‑dic. 2014, pp. 92 e ss. Sul tema è utile anche fare riferimento a A. Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera, Utet Libreria, pp. 202 e ss.
[7] Gli avvenimenti conosciuti con questo nome sono molto ben descritti nel loro impetuoso succedersi da R. Del Carria, op. cit., pp. 69 e ss.
[8] Confederazione generale del lavoro, l’organizzazione sindacale antesignana dell’odierna Cgil.
[9] Le Camere del Lavoro, nate nel 1891, erano organismi specifici del sindacalismo italiano, articolate su base territoriale e interprofessionale, che perseguivano la tutela degli interessi dei lavoratori, non solo nel campo del collocamento, ma anche dell’istruzione e dell’assistenza.
[10] G. Maione, op. cit., p. 36.
[11] Questa – alcuni anni dopo gli eventi – fu l’incredibile rivendicazione (riferita da R. Del Carria, op. cit., p. 83) di Ludovico D’Aragona, allora segretario della Cgl e che concluderà poi la sua “brillante carriera” di agente della borghesia in seno al movimento operaio facendo il ministro in un governo borghese. Lo storico P. Spriano, in L’occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Piccola biblioteca Einaudi, p. 128, riferisce che, recandosi al tavolo negoziale fra governo, industriali e organizzazioni sindacali, che avrebbe poi messo la parola fine all’occupazione delle fabbriche di cui diremo più avanti, il prefetto di Milano segnalò D’Aragona all’industriale De Benedetti indicandoglielo con queste parole: «Vede quello là? È il salvatore d’Italia!».
[12] Di «inauditi episodi di barbarie e di dissolutezza» parlò L’Ordine nuovo del 12 luglio 1919, rivendicando alle Camere del lavoro e alle sezioni socialiste il merito di aver «dimostrato di sapere esercitare un prestigio sulle folle, di essere capaci di ricondurre un ordine»! Sul numero del 2 agosto 1919, gli ordinovisti difesero addirittura la tesi di D’Aragona che si era espresso contro il calmiere imposto sui prezzi dai moti popolari sostenendo che ciò avrebbe portato al fallimento «le nostre cooperative di consumo» ed esprimendo il timore che i commercianti sarebbero stati perciò costretti a chiudere gli esercizi.
[13] R. Del Carria, op. cit., p. 86.
[14] Le guardie regie erano un corpo di pubblica sicurezza alle dipendenze del ministero dell’Interno.
[15] “L’opinione degli industriali sui consigli di fabbrica”, in L’Ordine Nuovo, 15 maggio 1920. Per comprendere tutto il processo attraverso cui gli industriali si prepararono alla lotta contro i consigli di fabbrica per sconfiggere il movimento operaio, G. Maione, op. cit., pp. 116 e segg. È utile anche, pur tenendo presente la matrice togliattiana dell’autore, consultare in proposito P. Spriano, op. cit., pp. 29 e ss.
[16] A. Moscato (a cura di), Cento … e uno anni di Fiat. Dagli Agnelli alla General Motors, Massari editore, p. 14.
[17] È utile la ricostruzione cronologica degli eventi che portarono allo “sciopero delle lancette” fatta da G. Maione, op. cit., pp. 121 e ss., il quale riferisce come i dirigenti del Psi non sapessero spiegarsi tanta ostilità operaia per una questione che essi definivano “futile”, bollandola, dalle colonne dell’Avanti!, come «un nuovo atto di ribellione contro la borghesia». L’autore descrive minuziosamente il lavoro preparatorio degli industriali in vista dello scontro, confermato anche da L’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920.
[18] «Dopo tanto discutere e teorizzare di soviet sorgeva ora un organismo che … avrebbe potuto svolgere effettivamente il ruolo che nelle rivoluzioni russe aveva svolto il soviet di Pietrogrado … Anche ora, però, Gramsci e compagni non avanzano decisamente sul proscenio come la situazione esigeva, ma preferiscono restare dietro le quinte … Nessuno avrebbe potuto aver nulla da ridire se il Comitato di agitazione avesse spazzato via tutti gli altri organismi e si fosse presentato nella maniera più energica come l’unico punto di riferimento per tutto il proletariato torinese. Così non fu … Gramsci e compagni … dimenticano di affrontare i problemi che si pongono prima della presa del potere. Non si dà vita ad alcuna discussione politica di massa su quanto sta avvenendo, sugli errori commessi, sulla necessità di prevedere le prossime mosse dell’avversario, di prevenirle»: così G. Maione, op. cit., pp. 136–138.
[19] Firmando l’accordo, D’Aragona ironizzò sul conflitto, dicendo che si trattava di «sotterrare il bambino nato morto»: così B. Paleni, Italie 1919–1920. Les deux années rouges. Fascisme ou révolution?, Les Bons Caractères, p. 71.
[20] A. Gramsci, “Superstizione e realtà”, L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920.
[21] «Come potevo impedire l’occupazione? Si tratta di 600 manifatture dell’industria metallurgica. Per impedire l’occupazione avrei dovuto mettere una guarnigione in ciascuno di questi opifici …: avrei impiegato per occupare le fabbriche tutta la forza della quale potevo disporre! E chi sorvegliava i 500.000 operai che restavano fuori delle fabbriche? Chi avrebbe tutelato la pubblica sicurezza nel Paese? … Era la guerra civile» (P. Spriano, op. cit., p. 58).
[22] Gli operai dei cantieri navali liguri battezzarono col nome di Lenin una nave appena varata. Sull’ingresso delle officine Ansaldo di Sestri Ponente venne issata l’insegna “Stabilimenti comunisti”.
[23] Sulla gestione operaia e sulla difesa armata delle fabbriche occupate P. Spriano, op. cit., pp. 69 e ss.; G. Maione, op. cit., pp. 241 e ss.
[24] Molto efficacemente, P. Spriano, in op. cit., pp. 95 e ss., e in Storia del Partito comunista italiano, l’Unità Einaudi, vol. I, p. 79, parla di “rivoluzione messa ai voti”. Il drammatico resoconto della discussione può essere letto nei verbali delle riunioni congiunte fra direzione del Psi e Comitato direttivo della Cgl, pubblicati in G. Bosio, La grande paura, Edizioni Samonà e Savelli, pp. 95 e ss.
[25] G. Maione, op. cit., pp. 264 e ss.; G. Bosio, op. cit., pp. 17 e ss.
[26] Va, peraltro, segnalato che, contraddittoriamente, in una lettera ad Alfonso Leonetti del 28 gennaio 1924 (ripresa da P. Spriano, Storia del Partito comunista cit., pp. 56–57), Gramsci ammise la responsabilità della propria tendenza: «Nel 1919–20 noi abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia. Non abbiamo voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo e che avrebbe potuto esercitare un’immensa influenza in tutto il paese, per paura della scissione nei sindacati e di essere troppo prematuramente espulsi dal partito socialista». Questo testo smentisce l’analisi che, nel suo innamoramento gramsciano, Livio Maitan avanza, sostenendo che nel ’19-’20 Gramsci fosse «perfettamente consapevole» della necessità della «formazione di una direzione rivoluzionaria in rottura sia con il riformismo sia con il massimalismo» (L. Maitan, Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Nuove Edizioni Internazionali, p. 15).
[27] È stupefacente come Umberto Terracini, all’epoca dei fatti membro de L’Ordine Nuovo, parlando al III Congresso dell’Internazionale comunista nel 1921 abbia giustificato la scelta della direzione riformista del Psi di non aver accettato le dimissioni dei membri della direzione della Cgl con l’argomento che … non c’era nessuno con cui sostituirli! Si veda, al riguardo, La questione italiana al Terzo Congresso della Internazionale comunista, Libreria editrice del Pcd’I, 1921, p. 56 e s.
[28] E. Riboldi, Vicende socialiste, trent’anni di storia italiana nei ricordi di un deputato massimalista, Azione Comune, 1964.
[29] V.I. Lenin, Opere, Edizioni Lotta comunista, vol. 32, p. 441. Significativamente, questo giudizio così netto, viene invece edulcorato nella trascrizione del discorso di Lenin contenuta ne La questione italiana … cit., p. 77, dove la frase viene trasformata nella molto più sfumata «Durante la occupazione delle fabbriche in Italia, forse che il comunismo esisteva?».
[30] Da una lettera di Gramsci a Zino Zini (collaboratore de L’Ordine Nuovo), pubblicata nel 1964 da Rinascita e ripresa da G. Bosio, op. cit., p. 20.
[31] Riportato da P. Spriano, L’occupazione … cit., p. 174.
[32] La formazione togliattiana di Spriano (op. ult. cit., pp. 162 e ss.) lo spinge ad escludere che il 1920 fosse «l’occasione rivoluzionaria». Fondandosi sul giudizio di riformisti e liberali (ma persino di Giolitti!), conclude per l’assenza delle condizioni oggettive (ritenendo che il governo permanesse nel controllo della situazione) e l’immaturità soggettiva delle masse. In realtà, una simile analisi si risolve nel paradosso di dare allora ragione e fondamento alla decisione della direzione riformista del sindacato e del partito: se la situazione non era rivoluzionaria e la classe era immatura, non sarebbe stato folle e avventurista voler fare la rivoluzione a tutti i costi? Ragioni di spazio non consentono di approfondire il tema, ma è utile rimandare a L. Trotsky, “Encore une fois, où va la France?”, Œuvres, Edi, vol. 5, pp. 148 e ss. (pubblicato in italiano nel volume L. Trotsky, I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali. 1924–1940, Einaudi, pp. 427 e ss.), laddove il rivoluzionario russo spiega che proprio «quando si avvicina una crisi rivoluzionaria, molti capi, che temono le responsabilità, si nascondono dietro il presunto conservatorismo delle masse … Chi dice che il proletariato non vuole o non può combattere, lancia una calunnia, proiettando sulla masse lavoratrici la propria mollezza e la propria viltà».
[33] L. Trotsky, “Settembre 1920: la rivoluzione mancata”, in Scritti sull’Italia, Massari editore, p. 84 e s.