Referendum costituzionale: perché No e quale No
Valerio Torre
È fin troppo noto – e non vi ritorneremo, perché non aggiungeremmo nulla di nuovo – che la famosa banca d’affari americana JP Morgan, ritenuta responsabile dal Tribunale di New York della bolla dei mutui sub‑prime che ha scatenato la grave crisi mondiale del 2008 e di vari altri scandali, come quello denominato “London Whale” che è costato a JP Morgan una sanzione di 920 milioni di dollari, sia stato l’organismo internazionale che ha esplicitamente spinto nella direzione delle modifiche costituzionali su cui saremo chiamati ad esprimerci nel referendum del 4 dicembre prossimo[1].
Ma JP Morgan, che ne ha espressamente teorizzato la necessità, è stata solo la punta di lancia[2] di tutto l’agglomerato dei poteri forti internazionali che sta dietro alla riforma costituzionale proposta da Renzi: dalle élite della finanza e dell’economia (banche e multinazionali) con i loro grandi mezzi d’informazione (Wall Street Journal[3] e Financial Times[4] in testa) fino alle cancellerie europee, passando per gli organismi internazionali e per l’imperialismo Usa, il cui presidente uscente, Obama, ha speso l’ultimo atto ufficiale del suo incarico per sostenere la battaglia costituzionale di Renzi.
Cosa c’è in gioco per Renzi in questa campagna referendaria …
Da questo punto di vista, allora, è evidente che col referendum il premier si sta giocando tutta la sua credibilità in un momento in cui appare evidente la sua debolezza sul piano internazionale, come dimostrano non solo il fatto che, nonostante tutti gli sforzi fatti per farsi ammettere nel direttorio ristretto – cioè l’asse franco‑tedesco che di fatto governa l’Ue – prendendo il posto della Gran Bretagna dopo la Brexit, Renzi continua a non essere considerato “degno” di sedere allo stesso tavolo di Angela Merkel e François Hollande, ma anche le pesanti critiche che la Commissione europea ha avanzato rispetto alla legge di bilancio presentata dal governo italiano (sostanzialmente dicendo che l’esecutivo di Roma ha truccato i conti[5]).
A questo riguardo, fra quest’ultimo e la Commissione europea è allora andato in scena uno “scontro” totalmente finto, mimato quasi come un incontro di wrestling, con Renzi che ha colto al volo le riserve sulla legge finanziaria italiana da parte della Commissione per smarcarsene, additandola come un covo di tecnocrati allo scopo di apparire agli occhi dell’elettorato incerto – e per guadagnarne il voto il prossimo 4 dicembre – come il difensore della sovranità nazionale contro la burocrazia europea. Ma la pantomima è durata poco, dal momento che lo stesso Juncker – che aveva detto di “fregarsene” della considerazione che l’Italia ha della Commissione europea – ha poi espressamente detto di tifare per il Sì al referendum (certo, non rendendo un buon servigio a Renzi, al quale avrebbe giovato di più, a fini elettorali, la “versione cattiva” dello Juncker di qualche giorno fa piuttosto che quella buona e accomodante di oggi).
… e cosa c’è in gioco per il capitalismo e la borghesia
Il fatto è che l’interesse di tutti questi attori, in questo momento, è mantenere in sella l’attuale governo di Roma, temendo il salto nel vuoto di nuove elezioni nel caso di vittoria del No al referendum. Ma non c’è solo questo dietro le aspettative delle cancellerie e delle borghesie europee e internazionali.
Se per Renzi l’affermazione del No, soprattutto se di proporzioni schiaccianti, farebbe precipitare la sua immagine a livello internazionale[6], sul piano interno essa significherebbe un oggettivo indebolimento del progetto capitalistico di bloccare (o addirittura invertire) la caduta tendenziale del saggio di profitto estraendo maggiori quote di plusvalore dalla svalorizzazione del lavoro e dalla progressiva riduzione dei diritti lavorativi e sociali – e continuando quindi una politica di rapina ai danni dei lavoratori e delle classi subalterne[7] – pur senza però giungere a ridurre l’Italia al rango di semicolonia, cioè senza farne una nuova Grecia. Perché – parliamoci chiaro – dietro la riforma costituzionale non c’è affatto il disegno “tecnico” di una ristrutturazione della macchina statale per “modernizzarla”, come ci raccontano Renzi e Boschi. L’abolizione del Cnel o la modifica del Senato non sono affatto quelle misure “neutre” che appaiono nei discorsi dei costituzionalisti asserviti alla maggioranza di governo. No, dietro di esse c’è ben altro. C’è il completamento del disegno “lacrime e sangue” iniziato dal governo Monti per far fronte alla crisi economica che dal 2008 imperversa in Italia e nel mondo intero e che ora necessita di essere approfondito e portato a termine: una tela che ha adesso bisogno di una robusta cornice perché il quadro possa dirsi completato.
Ecco perché una vittoria del No nella consultazione referendaria costituirebbe oggettivamente un esito progressivo: significherebbe – sia pure con i limiti di cui diremo – un importante segnale da parte delle classi lavoratrici.
Una battaglia nel fronte del No per un altro No
Però va detto con chiarezza che il campo del No è chiaramente egemonizzato da forze politiche borghesi e piccolo‑borghesi che rispondono a interessi parzialmente divergenti da quelli cui risponde Renzi[8], e, in misura molto minore, da forze riformiste che cercano nella vittoria del No la scorciatoia per uscire dalla marginalità in cui sono state precipitate dalle loro stesse politiche fino ad oggi perseguite. Per tutti costoro, la vittoria del No al referendum costituirebbe l’occasione per riprendere un protagonismo che viene oggi loro negato dall’ingombrante figura mediatica dell’inquilino di Palazzo Chigi e dal suo iperattivismo politico.
Come uno specchio della società, nel fronte del No gli oppositori da un versante di classe – non solo del governo Renzi, ma del sistema capitalistico – sono ridotti a poche avanguardie. Eppure, potrebbero rendersi interpreti del confuso malcontento di massa che, incanalandosi in maniera distorta nello strumento referendario, innerva di sé le ragioni del rifiuto della riforma costituzionale. Ma, per riuscirvi, dovrebbero innanzitutto avanzare la loro proposta politica ripulendola dalle incrostazioni di un tecnicismo costituzionale che spesso attraversa i dibattiti che si stanno sviluppando, semmai “ingolfandosi” in un confronto con i rappresentanti del Sì in omaggio a un astratto principio democraticista; dovrebbero rivendicare dalle direzioni dei sindacati cui appartengono la convocazione di assemblee nei luoghi di lavoro e di studio allo scopo di spiegare le autentiche ragioni politiche che dovrebbero supportare un No convinto e consapevole; dovrebbero spogliare agli occhi delle classi subordinate lo strumento referendario del valore “sacrale” che queste gli attribuiscono subendo l’influsso della coscienza dominante; dovrebbero – alcune di quelle avanguardie – spiegare agli interlocutori del proprio campo che quel No non rappresenta e non deve rappresentare la difesa ad oltranza della Costituzione borghese, poiché la loro condizione sociale di sfruttamento, precarietà, perdita del lavoro e dei diritti sociali si è verificata e si verifica quotidianamente nonostante la vigenza di quella Costituzione, da ben prima che Renzi fosse addirittura venuto al mondo, proprio perché essa non è uno strumento di tutela dei lavoratori e delle masse subalterne, ma, al contrario, dietro la facciata dell’altisonante dichiarazione di alti principi, un ulteriore strumento di dominazione confezionato dal capitale: e, in questo senso, demistificare la battaglia a difesa della Costituzione formale legandola invece alla lotta per una Costituzione materiale fondata sul potere dei lavoratori; e altri rappresentanti di quelle stesse avanguardie dovrebbero infine smetterla con l’insopportabile settarismo di chi pensa di rivolgersi sussiegosamente alle ignare masse “in attesa del Verbo”, utilizzando qualche frasetta presa qua e là dal manuale del perfetto leninista, però guardandosi bene dal partecipare attivamente a questo movimento “impuro” che sta dietro il No, beandosi invece del proprio dispensare lezioncine di marxismo e “salvifiche” ricette.
La costruzione di un reale movimento di massa che assuma una connotazione e una coscienza classiste rappresenta una strada ancora lunga da percorrere, ma può e deve passare attraverso la vittoria del No al referendum. Di questo No.
Note
[1] Nell’ormai noto report del maggio 2013, JP Morgan spiega che le Costituzioni dei Paesi della periferia europea, come l’Italia, presenterebbero parecchie “criticità” rispetto a una maggiore “integrazione” delle economie continentali, cioè rappresenterebbero un ostacolo al dispiegamento e alla piena efficacia delle politiche monetarie dell’Ue. Ciò sarebbe determinato dai seguenti fattori: esecutivi deboli rispetto ai parlamenti; Stati centrali deboli rispetto alle autonomie regionali; tutele costituzionali dei diritti lavorativi; tutele costituzionali del diritto di sciopero o di protesta rispetto alle decisioni degli esecutivi; fattori che sarebbero il frutto di una «forte influenza socialista» su Costituzioni nate dopo il crollo dei regimi fascisti e che dovrebbero essere eliminati attraverso la modifica di quelle Costituzioni.
[2] È utile anche consultare la documentatissima ricostruzione di F. Fracassi, “Si scrive Renzi si legge JP Morgan”, alla pagina web http://tinyurl.com/gop7qv6.
[3] «Una vittoria del no al referendum potrebbe innervosire i mercati», secondo il quotidiano statunitense di affari e finanza.
[4] «Il 5 dicembre l’Europa potrebbe svegliarsi con l’immediata minaccia della disintegrazione», secondo la catastrofica analisi di Wolfgang Münchau, condirettore del quotidiano economico britannico. E il foglio della City ha poi rincarato la dose aggiungendo che se il prossimo 4 dicembre «il premier Matteo Renzi perderà il referendum costituzionale, rischieranno di fallire fino a otto banche italiane».
[5] Il Sole 24 Ore, “Manovra, scintille Juncker-Renzi” (http://tinyurl.com/jqntwsa).
[6] Non dimentichiamo che lo stesso premier ha, in un primo momento, talmente personalizzato la consultazione da definirla “la madre di tutte le battaglie”, legando la sua permanenza a Palazzo Chigi al risultato referendario: e ciò con il chiaro obiettivo, non solo di rafforzare il proprio peso politico in Italia, ma di spendere sui tavoli della politica internazionale un’eventuale vittoria del Sì.
[7] Emblematica è la vicenda del piano nazionale per rilanciare gli investimenti e le imprese italiane lanciato dal governo Renzi lo scorso mese di settembre. Ai giornalisti e ai potenziali investitori stranieri è stata consegnata una brochure dall’accattivante titolo “Invest in Italy: the right place, the right time for an extraordinary opportunity” (scaricabile alla pagina web http://tinyurl.com/z88qojk), nella quale il governo mette l’accento su un aspetto che considera importante per solleticare i potenziali investitori, e cioè l’attrattiva del mercato del lavoro italiano: «L’Italia offre un livello di salari competitivo (che cresce meno rispetto al resto dell’Unione Europea) e una forza lavoro altamente qualificata». Come se non bastasse, viene anche fornito un esempio che nelle intenzioni del governo dovrebbe essere quello “decisivo”: «Un ingegnere in Italia guadagna in media uno stipendio di 38.500 euro, quando in altri Paesi europei lo stesso profilo ne guadagna mediamente 48.800». Scorrendo il fascicoletto si trova poi, messa in bella mostra, quella che nella narrazione ufficiale renziana è un’inconfessabile verità. Nella parte relativa al Jobs Act, fiore all’occhiello della politica del premier, è scritto senza mezze misure: «Maggiore flessibilità nelle assunzioni … Il Jobs Act è finalizzato a rendere il mercato del lavoro italiano più flessibile, semplificando le regole e riducendo i rischi aziendali … Punti chiave del Jobs Act: deregolamentazione del regime di licenziamento (cioè indennizzo per l’ingiusto licenziamento in luogo della reintegrazione dei lavoratori) …». Detto in altri termini, ciò significa che l’Italia offre forza lavoro altamente qualificata a prezzi stracciati rispetto ad altre nazioni e che ormai le regole a tutela del lavoro sono ridotte al minimo, a tutto beneficio dei profitti delle aziende.
[8] Alla manifestazione nazionale del 26 novembre scorso promossa dal Movimento 5 Stelle a favore del No, il portavoce Beppe Grillo ci ha tenuto a rassicurare i poteri forti della finanza internazionale: «I grandi poteri non si spaventino, stanno cercando di spaventare di nuovo l’opinione pubblica, se M5S va al potere non succede nulla … Dicono che siamo nemici della grande industria. Ma non è vero … Dicono che se vince il No e poi il Movimento 5 Stelle … chissà cosa succede … ma non succede nulla tranne che la gente apre gli occhi e vede la realtà com’è» (http://tinyurl.com/h5elhdg).