Cosa possiamo fare per la Siria
Santiago Alba Rico e Carlos Varea
(Pubblicato nella pagina web Comune‑info.net)
Le immagini, ormai, le abbiamo viste tutti. Per molti anni, però, per esempio quando cinque anni e mezzo fa cominciò la rivoluzione siriana, abbiamo fatto finta di non vedere. Adesso facciamo finta di non capire: la tragedia si è fatta troppo complessa. Non è piacevole guardare l’orrore, è più difficile ancora capirci qualcosa. Cosa vogliamo per la Siria? E cosa possiamo fare? Primo, non semplificare, dicono in questo articolo molto prezioso (che preghiamo vivamente i lettori di Comune di leggere fino in fondo) Santiago Alba Rico e Carlos Varea. “Il mondo oggi è un problema siriano, come la Siria è un problema mondiale” hanno scritto, a ragione, gli artisti e gli intellettuali siriani … Ecco, potremmo cominciare ad ascoltare i siriani che lottano per le stesse cose per cui lottiamo noi, quelli che vogliono giustizia, autodeterminazione, diritti umani e democrazia, quelli che scommettono di poter spezzare il ciclo di interventi multinazionali, le dittature locali e il terrorismo jihadista. Lo sa bene Assad e lo sanno tutti i responsabili del fiume di sangue che scorre: la violenza è utilissima, funziona, impedisce di ricordare e non permette che la società civile si organizzi. Perché la società e la guerra sono incompatibili. E anche la resistenza civile e la guerra sono incompatibili. Ci sono persone “normali” che in Siria lottano per le stesse cose per le quali noi lottiamo in Europa. Ci sono e sono ancora migliaia. È bastata una breve tregua, a febbraio, perché uscissero nuovamente in strada, a manifestare contro il regime e contro l’Isis, e anche contro Jabhat Al-Nusra nella provincia di Idlib, dando vita a un movimento che resiste ancora. Basta un momento di pace, una sospensione dello tsunami assassino, perché le strade – le rovine – risuonino di resistenza civile e volontà di organizzazione politica. Non è assolutamente vero che non ci siano interlocutori che potremmo appoggiare apertamente. Prima che vengano uccisi tutti.
Ogni volta che scriviamo sulla Siria è per aggiungere morti e rovine ad una lista infinita. I bombardamenti indiscriminati su Aleppo delle ultime settimane e la situazione stessa della città, assediata e affamata dal regime e dai suoi alleati, difesa da milizie ribelli diverse e talvolta contrapposte tra loro, danno la misura esatta della tragedia che la Siria sta vivendo e della complessità crescente che la guerra alimenta. A ogni morto aumentano le tensioni incrociate, si aggrava la responsabilità di tutti gli attori, si allontana la pace e con lei, naturalmente, la giustizia e la democrazia. Come diceva un manifesto firmato a metà settembre da 150 artisti e scrittori siriani, “il mondo oggi è un problema siriano, come la Siria oggi è un problema mondiale”.
Si tratta indubbiamente di una questione complessa. E quando, dall’Europa, si affronta una questione complessa, è necessario porsi due domande. La prima è: cosa vogliamo. La seconda è: cosa possiamo fare.
Sicuramente in una situazione complessa non potremo mai ottenere tutto quello che vogliamo, ma è bene sapere cos’è. Cosa vogliamo per la Siria? Le stesse cose che vogliamo per qualsiasi altro Paese del mondo, le stesse cose per le quali lottiamo nei nostri Paesi: sovranità economica, giustizia sociale, rispetto dei diritti umani, democrazia piena, un futuro per i nostri figli e figlie.
Cosa possiamo fare? Prima di tutto, se riconosciamo che si tratta di una situazione complessa, possiamo fare una cosa: non semplificarla. Ciò implica riconoscere che gli ostacoli che si frappongono tra noi e quello che vogliamo – sovranità, giustizia, diritti umani, democrazia – sono molti e intricati, e non si lasciano imbrigliare in un racconto lineare. Cinque anni e mezzo fa, quando ebbe inizio la rivoluzione siriana, le cose erano più semplici. L’ostacolo era principalmente uno: il regime dinastico degli Assad, contro il quale buona parte del popolo siriano si sollevò pacificamente.
Cinque anni e mezzo dopo, con la Siria trasformata in un poligono di tiro di decine di milizie e più di sessanta paesi, quel regime – insieme ai suoi alleati – continua ad essere il responsabile della maggior parte delle vittime civili (fino al 95%), della maggior parte delle violazioni di diritti umani (almeno 6.786 detenuti morti sotto tortura), della maggior parte dei rifugiati esterni e interni (rispettivamente 5 e 12 milioni), di 287 sui 346 attacchi compiuti contro strutture sanitarie e di 667 sui 705 morti tra il personale sanitario, nonché dell’assedio che affama villaggi e città con centinaia di migliaia di abitanti, sempre secondo fonti pienamente affidabili. Nemmeno lo Stato colombiano è arrivato mai a tanto contro il suo popolo; forse solo Franco, durante e subito dopo la guerra civile spagnola. Ma questo per la Siria non è solo il passato: continua ad essere il suo presente, e la più elementare decenza dovrebbe impedirci di dimenticarlo.
Ma cinque anni e mezzo dopo ci sono ancora altri ostacoli. Se parliamo del regime, è indubbio che questo sarebbe stato sconfitto già da tempo se non ci fossero stati gli interventi della Russia, dell’Iran e di Hezbollah che occupano letteralmente il Paese e determinano sia il corso della guerra, con le loro bombe e le loro truppe, sia la politica di Bachir Assad. Non è molto diverso quello che accadde in Iraq, quando gli occupanti statunitensi permisero che alcuni tra questi stessi attori distruggessero il tessuto sociale resistente, puntellando così il regime nato dall’invasione. Sono gli stessi che mantengono in piedi la dittatura in virtù di interessi diversi che a volte si traducono anche in piccoli conflitti sotterranei.
La Russia, il cui Parlamento ha da poco approvato la presenza permanente di basi russe in Siria, mantiene il polso fermo con gli USA e con l’Unione Europea ai quali fa scontare l’aggressiva e sbagliata politica anti-russa in Europa, con lo sguardo puntato più che altro sull’Ucraina. Ma la Russia è un alleato fondamentale di Israele e ha impedito che l’Iran installasse una base logistica vicino alle alture del Golan occupato, mentre l’Iran, che ha negoziato con gli USA la questione nucleare, è considerato da Israele – e considera Israele – come un nemico irriducibile. La Russia, in ogni caso, è direttamente responsabile della morte di migliaia di civili in tutta la Siria e in particolare ad Aleppo, città contro la quale ha scatenato nelle ultime settimane un’offensiva aerea indiscriminata.
Un altro ostacolo rilevante è ovviamente lo Stato Islamico, oggi in ritirata, utilizzato come un jolly da tutti quelli che ufficialmente dicono di combatterlo: a partire dal regime siriano al quale interessava radicalizzare il conflitto militare e che ha attaccato molto poco il gruppo di Al-Baghdadi, per arrivare alla Turchia, alleata dell’UE e degli USA, molto compiacente verso i jihadisti, dei quali si è servita nella sua guerra contro i curdi. Accanto allo Stato Islamico, atroce padrone di se stesso, ci sono altri gruppi islamisti dipendenti da potenze regionali che ostacolano un progetto di sovranità e democrazia e che complicano ancora di più la situazione. Il più conosciuto di tutti, e il più forte, è Jabhat Fath Al-Sham, già Jabhat-al-Nusra, fino a qualche mese fa diramazione siriana di Al Qaeda. Le milizie di Abu Mohamed al-Jolani hanno fagocitato altri gruppi e rafforzato la propria influenza grazie ai finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo, soprattutto dall’Arabia Saudita ed anche perché, a differenza dell’autistico Stato Islamico nel suo territorio parallelo, combattono senza sosta contro il regime e contro gli eserciti occupanti.
Infine, ad ostacolare la pace e la democrazia, c’è Israele, molto compiaciuta dell’agonia siriana, che gestisce il caos a distanza e intanto consolida l’occupazione della Palestina e asfissia silenziosamente i palestinesi; c’è la Turchia, la cui priorità è quella di combattere i curdi, appoggiati dagli USA (un’altra contraddizione spesso ignorata) e che, dopo il contro-golpe di Erdogan, in caduta libera verso la dittatura, si avvicina alla Russia, all’Iran e perfino al regime di Assad; c’è l’Unione Europea, inutile e narcisista, preoccupata solo degli attentati sul suo territorio e dell’arrivo dei rifugiati, due problemi che essa stessa aggrava con le sue politiche antiterroriste; e naturalmente ci sono gli Stati Uniti, padri di tutte le miserie, che nel 2003 invasero l’Iraq per “ragioni umanitarie” aprendo la porta ai cavalieri dell’Apocalisse e che, come già fatto con Israele e Palestina, abbandonano ora i siriani nelle mani di Bachir Assad nonché, indirettamente, del jihadismo finanziato dai loro alleati: gli interessi di Washington non passavano, e non passano, dalla democratizzazione della Siria. Quando gli USA sono alla fine intervenuti, lo hanno fatto per trasformare la Siria in un falso campo di battaglia della “guerra globale contro il terrorismo”, rilegittimando il ruolo di Assad e sganciando bombe che, come già dimostrato in passato, oltre ad uccidere persone innocenti, fungono da lievito per la violenza che dicono di voler combattere. Bisogna ripetere ancora una volta che l’espansione dello Stato Islamico, sia in Iraq che in Siria, è la conseguenza e non la causa della precedente demolizione dello stato sociale che invasori, regimi e agenti regionali hanno portato a termine coscienziosamente per consolidare il proprio dominio ed evitare un cambiamento in senso democratico nella regione. Giustificare il mantenimento dei regimi di Damasco e di Baghdad, illegittimi, criminali e corrotti, con l’espansione dello Stato Islamico (idea sulla quale convergono gli USA e alcuni settori della sinistra europea) è una paurosa dimostrazione di cinismo o di ignoranza: è falsa, così come è pericolosa la dicotomia tra il regime di Bachir Assad e lo Stato Islamico. Ed è certo che gli USA, che hanno finanziato ed addestrato in Giordania le milizie che combattono contro Assad, hanno finanziato ed addestrato anche le milizie sciite irachene che lo sostengono.
Cosa possiamo fare di fronte a un problema complesso, che sta costando migliaia di vite umane? Prima di tutto, non semplificare. Le righe che precedono costituiscono, ci sembra, un piccolo campionario delle complessità che bisogna affrontare e che non possono ridursi a una cifra gestibile con un abracadabra geopolitico del XX secolo. Se vogliamo per la Siria le stesse cose che vogliamo per noi – giustizia, sovranità, diritti umani, democrazia, un futuro per i nostri figli e figlie – è necessario comprendere, a partire da questi dati, che la soluzione passa dalla rottura del ciclo “intervento/ dittature locali/ jihadismo terrorista”, come si è cercato di fare durante le rivolte del 2011 e che questo esclude, realisticamente, qualunque ruolo della dinastia Assad dal futuro della Siria.
Come ripete instancabilmente la nostra ammirevole Leila Nachawati: “più Assad, più Stato Islamico” e quindi, aggiungiamo noi, più interventi esterni. Né l’etica né la politica, e tanto meno una commistione delle due, può concedere – per principio o per pragmatismo geostrategico – un solo centimetro del timone a un criminale di guerra che la maggioranza del popolo non accetta più come governante e con il quale non è disposta a negoziare. Gli USA devono tenere ferma l’Arabia Saudita (e Israele), ma sono la Russia e l’Iran gli unici che possono sbloccare la situazione tirando fuori Assad dal palazzo di Damasco. In questo senso, è molto triste che una parte della sinistra europea continui ad allinearsi con l’estrema destra a favore del regime siriano e della Russia di Putin, e che si esprima in questo senso perfino al Parlamento Europeo. Come abbiamo già evidenziato altrove, se non bastasse l’attuale azione genocida contro il suo popolo, c’è il passato di questa dinastia, il suo ruolo di gendarme regionale, la sua complicità con Israele e il suo appoggio agli USA durante la prima e la seconda guerra del Golfo, a rendere ancora più sciocco l’atteggiamento di questa sinistra che si può attribuire ormai solo ad un riflesso pavloviano ereditato dall’eclissata Guerra Fredda.
E allora, cosa possiamo fare? Non semplificare e tirare delle conclusioni. Ma possiamo fare anche di più. Possiamo ascoltare i siriani che lottano per le stesse cose per cui lottiamo noi, però giocandosi la vita; quelli che vogliono giustizia, autodeterminazione, diritti umani e democrazia, quelli che scommettono di poter spezzare il ciclo di interventi multinazionali, dittature locali e terrorismo jihadista. Lo sa molto bene Bachir Assad, come lo hanno sempre saputo molto bene gli Stati Uniti: la violenza è utilissima, la violenza funziona, la violenza rinnova tutte le pulsioni e impedisce di ricordare i motivi della lotta e impedisce anche che, a partire da quel ricordo, la società civile si organizzi. La società e la guerra sono incompatibili. La resistenza civile e la guerra sono incompatibili. Forse non ci sono dei siriani normali che lottano in Siria per le stesse cose per le quali noi lottiamo in Europa? Ci sono e sono ancora migliaia. È bastata una breve tregua a febbraio perché uscissero nuovamente in strada, a manifestare contro il regime e contro l’Isis, e anche contro Jabhat Al-Nusra nella provincia di Idlib, dando vita a un movimento che resiste ancora. Altrettanto è successo durante la più recente e precaria tregua, dopo l’accordo ‑già rotto- tra Russia e USA: basta un momento di pace, una sospensione dello tsunami assassino, perché le strade ‑le rovine- risuonino di resistenza civile e volontà di organizzazione politica.
Il ricercatore Félix Legrand, in un lavoro molto meticoloso, analizza la strategia di Jabhat Al-Nusra nei diversi territori e mostra un rapporto direttamente proporzionale tra le tregue e l’indebolimento della sua legittimazione sociale. La conclusione di Legrand è che a Jabhat-al-Nusra, così come al regime ed ai suoi alleati russi, non interessano le tregue: la dittatura e i jihadisti possono respirare solo in battaglia. Entrambi sanno che appena cessano di cadere bombe su una città, la società civile superstite riprende terreno con le sue richieste di pace e democrazia contro, al tempo stesso, il regime di Assad, gli interventi multinazionali ed i jihadisti. Non è vero, non è assolutamente vero che non ci sia un interlocutore sociale, politico e militare siriano che potremmo appoggiare apertamente: non lo vediamo forse tutti i giorni? Non vogliamo vederlo tutti giorni, sotto l’atroce violenza che il popolo siriano subisce da cinque anni e mezzo? Chi ha ancora qualche dubbio in proposito, che non ne abbia sul fatto che il silenzio o la complicità reale di alcuni settori della sinistra europea stanno contribuendo a far sì che questo interlocutore si dissolva, impotente, tra le ondate di rifugiati e le montagne di cadaveri.
Possiamo quindi capire, trarre conclusioni e solidarizzare con i siriani che soffrono e, in particolare, con quelli che soffrono perché ambiscono alle stesse cose cui ambiamo noi: sì, proprio le nostre stesse cose. È vergognoso che la destra governante europea, che soffia sul fuoco, si sia impadronita del discorso sulla Siria, in termini oscenamente “umanitari”, mentre una parte della sinistra non solo glielo consegna, ma “reprime” le mobilitazioni contro la guerra e criminalizza quelli che si rifiutano di fare distinzioni tra le bombe della Russia e quelle degli USA, quando entrambe uccidono bambini e impediscono la democratizzazione e l’autodeterminazione nell’area.
Mentre l’Arabia Saudita appoggiava le milizie più retrograde e assassine, la sinistra spagnola, in buona compagnia dei fascisti francesi, polacchi o italiani, sosteneva Bachir Assad e visitava il suo palazzo. Nel frattempo la sinistra siriana (pensiamo a Yassin Al Haj Saleh o a Salameh Keileh, ancora vivi) perdeva logicamente la battaglia sul fronte interno; e la minoranza superstite, decimata dall’esilio e dalla morte, insieme al popolo siriano maciullato, continua a lottare contro tutti i nemici del mondo, compresi quei sinistrorsi europei che tanto hanno gridato, giustamente, contro l’invasione dell’Iraq e ora tacciono davanti ai crimini della Russia.