In occasione della morte di Shimon Peres e del grande rilievo internazionale che hanno avuto i suoi funerali, pubblichiamo contemporaneamente in questa stessa pagina due articoli: uno del compagno Waldo Mermelstein, che destruttura la sua immagine di presunto pacifista, descrivendone sinteticamente la traiettoria politica che lo vide tra i principali responsabili della criminale politica dello Stato sionista d’Israele nei confronti della popolazione palestinese; l’altro del compagno Valerio Torre, che ricostruisce da un punto di vista teorico la vicenda che si sviluppa da settant’anni circa in quella regione del Medio Oriente, attraverso una lettura marxista che prende le mosse dalla “questione ebraica” per approdare alla “questione palestinese” di oggi.
Sionismo, “questione ebraica” e “questione palestinese”
La situazione della Palestina in una lettura e una prospettiva marxista
Valerio Torre
«Assolutamente inconsistente sotto il profilo scientifico,
l’idea di un particolare popolo ebraico
è reazionaria per il suo significato politico.
(…) l’idea della ‘nazionalità’ ebraica
presenta un carattere chiaramente reazionario
non solo tra i suoi fautori conseguenti (i sionisti),
ma anche tra coloro che si sforzano
di abbinarla alle idee socialdemocratiche (i bundisti).
L’idea della nazionalità ebraica è in contrasto
con gli interessi del proletariato ebraico,
poiché suscita in esso (…) uno stato d’animo
ostile all’assimilazione, lo stato d’animo del ‘ghetto’».
(V. I. Lenin, “La posizione del Bund nel partito”, Opere, vol. 7, pp. 94–95)
Alla fine del mese di novembre 2014, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato al suo governo, che l’ha approvato a maggioranza, il progetto di legge che definisce Israele “Stato della nazione ebraica”. Il dibattito ha chiarito al di là di ogni dubbio che «Israele è lo Stato nazionale del popolo ebraico»[1], cioè un’entità che si fonda su un elemento identitario “razziale”. Infatti, il provvedimento normativo – che prevede l’abolizione dell’idioma arabo nell’uso ufficiale, il consolidamento delle pratiche di demolizione e distruzione delle abitazioni dei palestinesi e addirittura la revoca dei diritti di residenza per i palestinesi residenti a Gerusalemme o per i loro parenti qualora prendessero parte ad azioni di protesta – sancisce di fatto un’ulteriore etnicizzazione dello Stato col prevedere il principio dell’appartenenza di Israele agli ebrei di tutto il mondo, piuttosto che ai cittadini che abitano il Paese (fra cui gli arabi palestinesi, che non sono certo di discendenza ebraica).
Si tratta, insomma, di un’ulteriore dimostrazione di quanto falso sia il mito (propagandato dai sostenitori del sionismo) della caratterizzazione dello Stato di Israele come l’unica “autentica” democrazia in Medio Oriente[2], come poi vedremo nel prosieguo di questo testo. In realtà, per comprendere l’attuale situazione in quella regione del Medio Oriente in cui si dipana la cosiddetta “questione palestinese”, è necessario analizzare il carattere ed il ruolo dello Stato d’Israele, a partire da una disamina storica del sionismo: scopriremo così che la questione palestinese altro non è se non la conseguenza della “questione ebraica”[3].
L’analisi marxista della questione ebraica
A differenza delle interessate ricostruzioni che individuano nella religione ebraica o in una presunta “essenza razziale” uguale a se stessa attraverso i secoli le ragioni della “sopravvivenza” fino a noi degli ebrei come “razza”[4], molti degli autori che si sono interessati al tema in questione sostengono invece che le cause della presunta “originalità” del popolo ebraico si debbano ricercare in circostanze che non hanno nulla di ultraterreno o di razziale. Marx lo espresse con estrema chiarezza, già ne “La questione ebraica”[5], ribadendo ne La sacra famiglia[6] e consacrando infine nei Grundrisse[7] e ne Il capitale[8] il concetto che sarebbe poi stato ripreso e felicemente sviluppato da Abraham Léon nella sua fondamentale opera sulla questione ebraica[9]. Léon individuò la ragione della sopravvivenza degli ebrei nel fatto che nelle società precapitalistiche essi rappresentarono una classe sociale. Di più: un popolo-classe, cioè «un gruppo sociale con una funzione economica specifica»[10]. In quelle società, produttrici di valori d’uso e non di valori di scambio (com’è invece quella in cui noi attualmente viviamo), quasi tutto ciò che era prodotto veniva direttamente destinato all’uso o al consumo, e non già alla vendita o allo scambio per ottenerne un profitto in denaro. Certo, lo scambio e il denaro esistevano, ma rappresentavano l’eccezione e non la regola: la circolazione delle merci e del denaro-capitale (e, quindi, l’economia monetaria) era essenzialmente estranea a quella forma di società, in cui dunque la compravendita e il prestito di denaro si sviluppavano relativamente ai margini del modo di produzione[11]. Per questo erano esercitati da “stranieri”, da popoli-commercianti come gli ebrei, incarnanti una classe mercantile e finanziaria precapitalistica.
Su queste relazioni materiali si fondava la loro sovrastruttura istituzionale e ideologica: autorità comunitarie, una religione “speciale” e il mito di considerarsi discendenti diretti del primitivo popolo ebraico che abitava la Palestina all’inizio della nostra epoca. Questa sovrastruttura manteneva la coesione come popolo-classe, falsando però la vera natura della loro esistenza[12]. Sotto tale cortina ideologico-religiosa si produceva il fenomeno dell’incorporazione di individui o interi gruppi al popolo-classe, che chiarisce perché ci siano stati ebrei di “razza” mongola nel Daghestan, ebrei neri in Etiopia (i falascià), ebrei arabi nell’Islam ed ebrei di origine slava nell’Europa orientale. Ne discende che quello della comune discendenza da Abramo o dagli antichi abitanti della Palestina è un falso mito.
Léon spiega che durante il declino dell’Impero romano e del feudalesimo, in cui predominava l’economia naturale, gli ebrei sopravvivevano in quanto comunità perché erano gli intermediari indispensabili del commercio. La fase del capitalismo medievale li relegò dapprima nell’usura, salvo poi allontanarli anche da questa funzione, con la conseguente loro cacciata dai principali Paesi dell’Europa occidentale: il XIV e il XV secolo segnarono il grande esodo verso Est (soprattutto la Polonia) degli ebrei occidentali. Infine, la comparsa del capitalismo manifatturiero e industriale vide le comunità ebraiche rimaste in Occidente assimilarsi rapidamente nella misura in cui non svolgevano alcun ruolo economico particolare[13].
La società dell’Europa orientale era invece rimasta ferma allo stadio feudale: qui, fino alla fine del XVIII secolo, gli ebrei svolsero il ruolo di commercianti o mediatori, prosperando[14]. Ma lo sviluppo del capitalismo nel XIX secolo cominciò a minare la loro situazione: la distruzione dell’economia feudale e delle forme primitive di capitalismo produsse da un lato il fenomeno migratorio di massa degli ebrei verso i grossi centri dell’interno della Russia e della Germania ed Austria e dall’altro un processo di differenziazione sociale della casta commerciale ebraica, sfociato nella formazione di un proletariato marginale, concentrato soprattutto nel settore dell’industria dei beni di consumo e di dimensione artigianale, e di una massa di paria destinati all’emigrazione. Infine, l’avvento della fase imperialistica del capitalismo sradicò gli ebrei dalle posizioni economiche che ricoprivano da secoli, spingendoli verso occidente. Strangolati tra il feudalesimo in decomposizione e il capitalismo decadente senza che l’assimilazione potesse realizzarsi, essi rimasero inchiodati a una funzione economica storicamente superata, non potendo più integrarsi in un’economia capitalistica in declino.
L’incapacità di assimilare i gruppi ebrei alla borghesia e alla classe media in maniera naturale (com’era accaduto, ad esempio, in Inghilterra) fu alla base della contraddizione che diede forma all’antisemitismo moderno, facendo degli ebrei il capro espiatorio della crisi del capitalismo[15]. In Occidente, la crisi globale dei rapporti sociali borghesi diede un nuovo slancio all’antisemitismo fino alla forma più estrema del regime nazista, che più tardi avrebbe dirottato contro gli ebrei l’odio anticapitalista e la disperazione della classe media, della piccola borghesia pauperizzata e di settori arretrati della stessa classe operaia.
La nascita del movimento sionista
Per una curiosa coincidenza storica, fra il 1897 e il 1898 sorsero le tre organizzazioni politiche che incrociarono i destini della questione ebraica dandole risposte strategicamente differenti: quando nel 1898 venne fondato il Partito operaio socialdemocratico russo (Posdr) – cioè quello che dopo la scissione del 1903 fra bolscevichi e menscevichi, guidato da Lenin e Trotsky, sarebbe giunto al potere nell’ottobre del 1917 – già erano nati l’anno precedente il Bund (Unione generale degli operai ebrei della Lituania, Polonia e Russia) e l’Organizzazione sionista. Non parleremo qui, se non incidentalmente, del primo. Accenneremo invece al secondo, per poi soffermarci dettagliatamente su quest’ultima.
Come abbiamo detto, il proletariato ebreo nell’Europa orientale formatosi col processo di differenziazione sociale nella casta commerciale ebraica, era relegato in settori marginali dell’economia industriale, perlopiù fabbriche artigianali o semiartigianali tessili e conciarie. Per i circoli intellettuali ebraici lituani e polacchi, il marxismo cui si avvicinavano non serviva a dare una risposta alla classe operaia nel suo insieme, ma a risolvere il problema nazionale ebraico in Russia in considerazione di un proletariato strutturalmente marginale ed etnicamente omogeneo. Infatti, le condizioni di lavoro degli operai ebrei – alle dipendenze di un padrone ebreo, in una fabbrica ebrea – determinavano una sorta di “ghetto socio-economico”[16] in cui era impossibile l’incontro con gli operai russi o polacchi: la coscienza di classe si fondò dunque, per così dire, su basi nazionali. Il Bund nacque sì su basi teoriche socialiste e rivoluzionarie, ma per organizzare questo proletariato, agitando la parola d’ordine della salvaguardia della “cultura nazionale” e sostenendo l’organizzazione separata degli operai ebrei rispetto ai russi, polacchi, ecc., dividendo così il movimento operaio a seconda della sua origine nazionale o “razziale”. In realtà, il Bund era un riflesso del nazionalismo borghese in seno al proletariato ebreo, inscrivendosi in quella corrente della socialdemocrazia europea che capitolava di fronte alle rispettive borghesie nazionali.
L’anno successivo alla nascita del Bund – siamo quindi nel 1898 – tre suoi delegati parteciparono al congresso di fondazione del Posdr, marcando anche in quella occasione la propria prospettiva di difesa delle tradizioni localiste e dell’autonomia organizzativa del proletariato ebraico[17]. Il Bund fece quindi parte del Posdr fino alla scissione delle due frazioni, bolscevica e menscevica, nel 1903. Da quel momento in poi si allineò sempre con quest’ultima, fino ad appoggiare Kerensky contro Lenin e Trotsky nel 1917[18].
Coevamente al Bund, nello stesso 1897, nacque l’Organizzazione sionista. Il telone di fondo era dato dall’acuirsi dell’antisemitismo, fra i pogrom russi del 1882 e l’affare Dreyfus in Francia (1894): in Russia nasceva l’Associazione degli Amanti di Sion ad opera del medico ebreo polacco Leo Pinsker, autore del pamphlet Autoemancipazione, in cui sosteneva che l’unica soluzione possibile per la questione ebraica era il ritorno in Palestina. L’associazione venne foraggiata dal banchiere ebreo francese Edmond James de Rothschild che acquistò 25.000 ettari di terreni agricoli in Palestina trasferendoli alla Jewish Colonization Association (che continuò a finanziare negli anni) e favorendo l’insediamento delle prime colonie ebraiche in territorio palestinese. Nascondendosi dietro un atteggiamento paternalistico (l’aiuto agli “sfortunati fratelli”) Rothschild, in realtà, si rendeva interprete degli interessi della borghesia ebraica occidentale che, da un lato, non vedeva di buon occhio la recrudescenza dell’antisemitismo e dunque favoriva l’emigrazione il più lontano possibile (verso la “terra dei loro avi”) di masse ebraiche spinte in Occidente dalla miseria che soffrivano nell’Est europeo; dall’altro, aspirava a confinare gli ebrei più poveri in Medio Oriente allo scopo di separarli dalla lotta di classe in Europa sottraendoli all’influenza che su di essi aveva il marxismo rivoluzionario[19].
In questo quadro, Theodor Herzl, un giornalista ebreo ungherese, scrisse un libro, Lo Stato ebraico, che ancor oggi viene considerato “la bibbia del movimento sionista”. «Sin dal suo inizio – dice Léon – il sionismo si presentò come reazione della piccola borghesia ebrea (…) duramente colpita dall’ondata crescente di antisemitismo, sbattuta da un paese all’altro, in cerca di una Terra Promessa in cui trovare riparo (…). Il sionismo (…) è di fatto un prodotto della fase suprema del capitalismo, di un capitalismo che ha iniziato la sua fase di declino, (…) l’ideologia sionista, come tutte le ideologie, non è che il riflesso distorto degli interessi di una classe, l’ideologia della piccola borghesia ebrea che soffoca fra le rovine del feudalesimo e il capitalismo in declino»[20].
Herzl organizzò il primo congresso sionista, che si celebrò a Basilea nell’agosto del 1897 e si concluse con l’approvazione dell’opzione politica della costruzione in Palestina di uno Stato ebraico. Il vero obiettivo del sionismo, però, non fu mai solo quello di colonizzare la Palestina, ma di disperdere ed espropriare il popolo che l’abitava, piuttosto che sfruttarlo, come invece era “tradizione” del colonialismo classico. L’intenzione era sostituire la popolazione nativa con una nuova comunità di coloni, espellendo, non solo dalla loro terra ma anche dalla storia, contadini, artigiani e cittadini palestinesi, rimpiazzandoli con una nuova forza lavoro[21].
Un simile progetto, però, era impegnativo per un movimento ancora debole e di scarso seguito all’interno delle comunità ebraiche mondiali[22], così i sionisti cercarono l’appoggio di diversi imperialismi, giocando persino contemporaneamente su più tavoli: dal sultano turco al kaiser tedesco, dal re d’Inghilterra allo zar russo, fino a trovare sostegno proprio nell’impero britannico. Nel novembre 1917, la “Dichiarazione Balfour”[23] aprì la strada alla creazione dello Stato d’Israele.
Dall’occupazione della Palestina alla fondazione dello Stato d’Israele
Finita la prima guerra mondiale, la Società delle nazioni, antesignana dell’Onu, assegnò alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina. Iniziò ad intensificarsi[24] l’afflusso di coloni sionisti che acquisivano in blocco terre su cui costruivano insediamenti per creare reti sociali e comunitarie a sostegno di un gruppo ancora ristretto ed economicamente debole di nuovi arrivati[25]. Nel 1917 c’erano in Palestina 56.000 ebrei e 644.000 arabi. La colonizzazione esplicitava ormai le reali intenzioni dei sionisti: l’acquisizione delle terre prevedeva l’espulsione con la forza dei contadini arabi e il boicottaggio dell’economia palestinese (i coloni assumevano solo lavoratori ebrei e compravano solo prodotti da agricoltori o da negozianti ebrei). E ad approfondire questo processo contribuì anche l’amministrazione britannica che confiscò tutte le terre di proprietà collettiva[26] dichiarandole di proprietà statale. Alla fine del mandato (1948), sarebbero state considerate di proprietà del neonato Stato d’Israele.
Per secoli una moltitudine araba e pochi ebrei avevano convissuto pacificamente, ma ora i nuovi arrivati rappresentavano una presenza che mirava ad imporsi come dominatrice nel Paese. Nacque una resistenza sotto forma di disobbedienza civile e insurrezione armata che durò dal 1936 al 1939, con le forze armate inglesi che a fatica riuscirono a schiacciarla nel sangue, anche col supporto delle forze paramilitari sioniste che, addestrate direttamente dalle truppe britanniche, formarono il nucleo di quello che sarebbe poi diventato l’esercito israeliano. Pur con alcune contraddizioni, l’amministrazione mandataria consentì al movimento sionista di crearsi un’enclave indipendente come base per la successiva fondazione dello Stato d’Israele. Intanto, la situazione venutasi a determinare in Europa, con l’emanazione di legislazioni razziali, accentuò l’ondata migratoria degli ebrei perseguitati in Palestina. La scoperta dell’Olocausto dopo la fine della seconda guerra mondiale, poi, convinse l’opinione pubblica mondiale della necessità di creare uno Stato autonomo degli ebrei.
Nel 1947 c’erano ormai in Palestina 630.000 ebrei e 1.300.000 arabi e, benché i primi rappresentassero solo il 31% della popolazione, il piano di divisione promosso dall’Onu con l’appoggio di Stalin[27] prevedeva l’assegnazione del 54% delle terre fertili al movimento sionista. Ma già prima della nascita dello Stato d’Israele esso se ne era impadronito per i tre quarti espellendone gli abitanti. Dei 475 centri abitati palestinesi esistenti nel 1948, 385 furono completamente rasi al suolo; i rimanenti si videro confiscate le terre. Le vere mire sioniste erano state esplicitate molti anni prima. In un discorso del 1938, David Ben Gurion (futuro premier) dichiarò: «Quando saremo diventati una forza di peso con la nascita dello Stato, aboliremo la divisione e ci espanderemo in tutta la Palestina. (…) Lo Stato dovrà preservare l’ordine, non predicando, ma con le mitragliatrici»[28]. Al momento della proclamazione dello Stato d’Israele (15/5/1948), 780.000 palestinesi erano stati espulsi; gli altri furono vittime di persecuzioni selvagge e una carneficina paragonabile solo a quella messa in atto dai nazisti: era la Nakba, la catastrofe, che dura ancora oggi.
Il giorno successivo alla proclamazione, scoppiava la prima delle guerre arabo-israeliane, i cui sviluppi non tratteremo qui, ma per i quali rinviamo alle già citate opere di Schoenman e Pappe[29]. Possiamo però già affermare a mo’ di sintesi che la nascita e la permanenza in vita dello Stato sionista d’Israele sono il frutto di una rapina e di innumerevoli e sanguinosi massacri ai danni di una popolazione inerme.
La chiave del problema è nella natura dello Stato d’Israele
Ci pare invece utile soffermarci sul suo carattere, a partire da quello dell’ideologia sionista che lo sostiene.
Innanzitutto, il sionismo non è paragonabile ai movimenti di liberazione nazionale che hanno lottato per liberarsi dai colonizzatori imperialisti, come possono essere stati quelli in India, Indonesia, Algeria, Vietnam. Israele è invece un’enclave insediata in Palestina per difendere gli interessi dell’imperialismo in un’area strategica[30]: come nel caso dei coloni inglesi in Rhodesia (l’attuale Zimbabwe) o degli afrikaner in Sud Africa, si tratta di una popolazione straniera impiantata nelle terre dei nativi dove esercita un ruolo oppressore e al servizio dell’imperialismo.
Israele è uno Stato razzista. Come ribadito dal provvedimento normativo citato all’inizio di quest’articolo, è ufficialmente uno “Stato ebreo”, cioè non di tutti coloro che lo abitano, ma solo di chi è di discendenza ebrea[31]: la “legge del ritorno” sancisce il diritto per ogni ebreo a ritornare in Israele (col riconoscimento della cittadinanza), ma non è ispirata – come potrebbe apparire – a un principio umanitario, bensì a una concezione etnica dello Stato, dato che non è applicabile ai familiari all’estero di quei palestinesi che vivono e lavorano in Israele, dal momento che questi non sono ebrei; la “legge sulla cittadinanza” impedisce il matrimonio di ebrei con i residenti nei Territori occupati, pena la perdita dei diritti di cittadinanza; la “legge dell’assente” consente l’esproprio delle terre che non sono state coltivate per un certo tempo e che in tutta evidenza si applica a danno di chi è stato espulso dal territorio senza potervi fare ritorno (i palestinesi), ma non risulta mai essere stata applicata nei confronti di un ebreo[32]. Le terre vengono assegnate, attraverso il Fondo nazionale ebraico, solo ad ebrei, che per legge non possono vendere, affittare o far coltivare a “non ebrei”.
Ci sono poi altre disposizioni che impediscono i matrimoni fra non ebrei che abitano in aree diverse dei Territori occupati o addirittura le riunificazioni di nuclei familiari che sono dispersi in quelle aree. E infine, esistono altre misure di tipo amministrativo o poliziesco, come i check-point da cui i palestinesi sono costretti a passare più volte al giorno per recarsi al lavoro o altre necessità, costretti ad estenuanti controlli.
Per mantenere il suo carattere coloniale e razzista, lo Stato sionista è obbligato ad esercitare permanentemente la violenza contro la popolazione dominata, né può tollerare la minima contestazione interna o contestazione della sua natura: la “legge del parlamento” vieta la presentazione di partiti che neghino l’esistenza di Israele come Stato del popolo ebraico o la sua natura “democratica”[33]; non si contano le migliaia di detenzioni ai danni di palestinesi e i casi di torture. E per difendere il carattere razzista, la popolazione ebraica vive sempre sul piede di guerra: il principio della sicurezza di Israele si sostanzia in una permanente chiamata alle armi e in un’educazione militarista.
Il razzismo è addirittura “intraetnico”: vengono discriminati gli ebrei sefarditi (Mizrahim), discendenti dalle comunità ebraiche del Medio Oriente, Marocco, Egitto, Iraq, Iran, India, che si distinguono dall’etnia dominante (Ashkenazi) per cultura, abitudini, lingua, fino al colore della pelle.
Il collante che tiene insieme questa società così violenta e razzista è l’immaginario collettivo del “nemico comune” e dell’assedio perpetuo.
Sin dalla proclamazione dello Stato d’Israele, i sionisti hanno utilizzato, in una permanente manipolazione del genocidio, il ricatto dell’Olocausto per imporre la loro politica, e brandito l’accusa di antisemitismo contro chiunque osasse avanzare critiche alla natura della società che hanno edificato. Sono molti, però, i documenti storici che provano una sordida storia di collaborazione e addirittura di complicità con i nazisti del sionismo, che nulla fece – pur potendo – per salvare gli ebrei dalle camere a gas[34]. La politica di Israele nei confronti dei palestinesi può ben essere definita genocida, non differendo – se non nei numeri – da quella applicata dal nazismo ai danni degli ebrei d’Europa: è per questo che lo scrittore e pacifista israeliano Uri Avnery accusa il suo governo di essere esso stesso la più grande fabbrica di antisemitismo al mondo.
Distruzione del sionismo e della sua struttura statuale come primo passo per la soluzione della questione ebraica
In molti casi è il timore di essere accusati di antisemitismo a frenare coloro che vorrebbero denunciare i crimini di Israele: ed è per questo che è importante svolgere una capillare opera di controinformazione al fine di emancipare le coscienze dall’inganno sistematico perpetrato dalla propaganda e dall’ideologia sionista, facendo comprendere che questo cancro non solo non ha risolto e non risolverà la questione ebraica[35], ma ha creato anche una questione palestinese. In altri casi è la natura riformista e controrivoluzionaria di alcune organizzazioni della sinistra a impedire l’avanzamento di una coscienza in tal senso. Prendiamo ad esempio quanto è accaduto in occasione dell’aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza del luglio 2014, che ha provocato 2191 morti (di cui 299 donne e 597 bambini) e 10.895 feriti[36], radendo al suolo rilevante parte del territorio della Striscia.
Ebbene, all’aggressione militare la sinistra riformista italiana ha risposto invocando una generica “pace” fra Israele e Palestina, senza distinguere fra l’usurpatore storico e l’aggredito e riproponendo la stantia soluzione dei “due popoli, due Stati”. Mentre Sel[37] invocava l’intervento dei caschi blu di quella stessa Onu che ha consegnato al movimento sionista le chiavi della Palestina e ha poi sempre coperto politicamente il suo progetto razzista e coloniale, il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, si premurava di annunciare al mondo, nel bel mezzo dei bombardamenti e delle atrocità inflitte a donne, vecchi e bambini palestinesi, che lui – per carità! – non è antisionista e che lo Stato usurpatore ha la sua legittimità storica sulla Palestina[38]. Di fatto, queste posizioni rendono la sinistra riformista complice della mattanza sionista.
A questa visione politica è necessario opporre invece – a partire da una terza Intifada i cui segnali si sono intravisti in occasione dell’aggressione sionista[39] e che potrebbe costituire una potente spinta per la ripresa e lo sviluppo del processo rivoluzionario nella regione mediorientale – l’unica reale soluzione: l’estirpazione definitiva del cancro razzista e genocida nella regione, cioè la distruzione dello Stato sionista di Israele, cane da guardia dell’imperialismo nell’area, e la costruzione di una Palestina unica, laica, democratica e non razzista in tutto il suo territorio storico[40]. Una Palestina senza muri né campi di concentramento, in cui possano fare ritorno i milioni di rifugiati espulsi dalla loro terra e recuperare i propri pieni diritti i milioni che sono rimasti e sono oggi oppressi. Un Paese in cui, a loro volta, possano permanere tutti gli ebrei che siano disposti a convivere in pace e uguaglianza, con diritti di minoranza, nella prospettiva dell’edificazione della Federazione delle repubbliche arabe socialiste.
Rispetto all’analisi fatta a partire dal XIX secolo dal marxismo, attualmente la questione ebraica si è aggravata per effetto del sionismo[41], che si pone come un ostacolo in più sulla strada della sua soluzione. Ai marxisti rivoluzionari di oggi spetta un compito ancor più gravoso di quello dei loro predecessori: distruggere questo mostruoso sistema di oppressione, a partire dall’architettura statuale di cui si è dotato[42].
Note
[1] Così il dirigente del Likud, Zeev Elkin, durante il dibattito: http://tinyurl.com/lfbfan7.
[2] Nel suo fondamentale lavoro ricostruttivo La storia occulta del sionismo, lo storico israeliano Ralph Schoenman descrive i quattro falsi miti su cui si regge lo Stato di Israele: il primo è quello di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”; il secondo, appunto, quello della “democrazia israeliana”; il terzo, quello della “sicurezza” che sarebbe alla base della politica estera israeliana, cioè la necessità di costruire una società completamente militarizzata in grado di difendersi dalle “orde barbariche” di masse arabe traboccanti odio; il quarto, infine, quello del sionismo come “erede morale” delle vittime dell’Olocausto (nella stesura di quest’articolo facciamo riferimento all’edizione brasiliana del testo di Schoenman, A história oculta do sionismo, 2008, Editora Sundermann. Il richiamo ai “quattro miti” si trova alle pagine 44–45).
[3] Fra i primi ad aver affrontato da un punto di vista scientifico la questione ebraica vi fu Karl Marx, e al suo scritto “La questione ebraica”, pubblicato nella rivista Annali franco-tedeschi nel febbraio del 1844 (Massari editore, 2001, pp. 259 e ss.) occorre rinviare. Nondimeno, il testo fondamentale al riguardo è indubbiamente quello di Abraham Léon, La concezione materialista della questione ebraica, pubblicato postumo in lingua francese, tradotto poi in inglese (The Jewish Question, a Marxist Interpretation) e pubblicato in Italia, da ultimo, per i tipi della Giovane Talpa, 2006, con il titolo Il marxismo e la questione ebraica: è a quest’edizione che facciamo riferimento qui. Nato nel 1918 a Varsavia da genitori ebrei, Léon emigrò in Belgio dove militò nel movimento giovanile sionista di sinistra Hashomer Hatzair divenendone presto uno dei massimi dirigenti. Ruppe in seguito col sionismo avvicinandosi alla Quarta Internazionale. Scrisse nel 1942, in condizioni incredibilmente difficili, nella clandestinità dovuta all’occupazione nazista, il testo sulla questione ebraica, lo studio marxista più importante che sia stato scritto su questo tema. Impegnato nell’organizzazione e nello sviluppo della sezione belga della Quarta, venne arrestato e deportato ad Auschwitz dove morì poche settimane prima della liberazione degli internati dal campo.
[4] Queste ricostruzioni sono interessate, perché funzionali sia all’antisemitismo sciovinista che, dal versante opposto, al sionismo, che del primo non rappresenta altro, come spiegheremo, se non l’immagine riflessa.
[5] «Non cerchiamo il segreto dell’ebreo nella sua religione, cerchiamo invece il segreto della religione nell’ebreo reale. Qual è il principio mondano dell’ebraismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il basso commercio. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro. Ebbene, l’emancipazione dal commercio e dal denaro, dunque dall’ebraismo pratico, reale, sarebbe l’emancipazione della nostra epoca. Un’organizzazione della società che eliminasse i presupposti del traffico (…) renderebbe impossibile l’ebreo. La sua coscienza religiosa sarebbe sciolta come vano fumo (…). Noi riconosciamo dunque nell’ebraismo un elemento antisociale, universale e presente, il quale, attraverso lo sviluppo storico a cui gli ebrei (…) hanno collaborato con zelo, è stato sospinto fino al culmine attuale (…). L’emancipazione degli ebrei è, nel suo significato ultimo, l’emancipazione dell’umanità dall’ebraismo» (K. Marx, op. cit., p. 293).
[6] «L’ebraismo reale, mondano, e perciò anche l’ebraismo religioso, è prodotto continuamente dalla vita civile moderna, e trova la sua elaborazione ultima nel sistema del denaro. (…) l’ebraismo si è conservato e si è sviluppato mediante la storia, nella storia e con la storia (…) questo sviluppo è da collocarsi non nella teoria religiosa, ma solo nella prassi commerciale e industriale» (F. Engels – K. Marx, La sacra famiglia, Editori Riuniti, 1979, pp. 142–143).
[7] K. Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, PGreco edizioni, Vol. I, p. 466.
[8] K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, 1994, Libro I, sez. I, cap. 1, p. 111. Analogamente, op. cit., Libro III, sez. IV, cap. 20, p. 395.
[9] L’opera di Abraham Léon è stata sottoposta a critica da Enzo Traverso (Les marxistes et la question juive, Editions Kimé, 1997), cui ha risposto – peraltro, con una difesa abbastanza timida – Ernest Mandel in una nota di lettura del testo di Traverso (http://tinyurl.com/poo2obo). Va però segnalato che quest’ultimo, pur molto ben documentato e di utilissima lettura, appare – al di là delle obiezioni di Mandel – attraversato da idealismo e poggia in definitiva sugli stessi fondamenti demoliti da Léon.
[10] A. Léon, op. cit., p. 34.
[11] Marx spiega efficacemente che il capitale viveva “nei pori” di quelle società: e che in quei pori erano penetrati gli ebrei.
[12] R. Fanjul, G. Zadunaisky, “Israel: historia de una colonización”, Revista de América, dicembre 1973, p. 5.
[13] Fu dunque la loro specifica funzione economica a permettere agli ebrei di conservare un’identità particolare di gruppo sociale per tutto il tempo in cui hanno assolto un ruolo socio-economico specifico, e unicamente a tale condizione. Non appena cessavano di assolvere tale ruolo, essi si assimilavano ai popoli circostanti. In questo senso, come spiega Léon (op. cit., pp. 40–41), la funzione degli ebrei come popolo-classe spiega non solo la loro sopravvivenza, ma anche la loro assimilazione.
[14] I dati risalenti all’inizio del XIX secolo indicano che la composizione sociale della comunità ebraica orientale era così determinata: 86,5% di commercianti; 11,6% di artigiani e 1,9% di contadini.
[15] Per un’interessante conferma di questo processo, relativamente alla Romania, L. Trotsky, “La questione ebraica”, in Le guerre balcaniche 1912–1913, Edizioni Lotta comunista, 1999, p. 349.
[16] E. Traverso, op. cit., p. 115.
[17] V. I. Nevskij, Storia del Partito bolscevico, Edizioni Pantarei, 2008, p. 80.
[18] Interessante la ricostruzione del dibattito al congresso del Posdr del 1903 rispetto alla richiesta di autonomia del Bund all’interno del partito, con la violenta presa di posizione contraria di Trotsky, spalleggiato da Martov: se ne legga il resoconto in I. Deutscher, Il profeta armato, Longanesi, 1956, pp. 108–111.
[19] Il marxismo, già prima della rivoluzione d’ottobre, esercitava una forte attrazione sul proletariato ebreo, soprattutto in Europa orientale, dato che si poneva l’obiettivo della soluzione del problema ebraico nel quadro della lotta per il socialismo, facendo appello alle masse oppresse ebraiche dell’Est a unirsi con la classe lavoratrice: il rovesciamento di un sistema capitalistico in cui si erano così bene integrati i capitalisti ebrei, altrettanto sfruttatori, e l’instaurazione del socialismo avrebbero posto fine non solo allo sfruttamento di una classe sull’altra, ma anche a ogni altro tipo d’oppressione. È chiaro che un simile programma aveva un forte fascino sulle masse di ebrei disperati e veniva percepito come un pericolo dalla borghesia ebraica.
[20] A. Léon, op. cit., p. 207, 210.
[21] R. Schoenman, op. cit., p. 47.
[22] S. Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, 2010, p. 371.
[23] Si tratta della dichiarazione che il ministro degli esteri britannico, Arthur James Balfour, rilasciò a nome del governo inglese, con cui si manifestava il favore della Gran Bretagna alla nascita in Palestina di un “focolare ebraico”. Seguiva, evidentemente, gli accordi segreti con la Francia per la futura spartizione del territorio mediorientale (accordo Sykes‑Picot del 16/5/1916), allora parte dell’impero ottomano, di cui prospettava la sconfitta nella prima guerra mondiale in corso.
[24] Una prima ondata migratoria si ebbe fra il 1880 e gli inizi del 1900; una seconda fra il 1903 e il 1914.
[25] I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi editore, 2008, p. 25.
[26] Il possesso comunitario delle terre da parte degli abitanti dei villaggi era una caratteristica della società rurale palestinese.
[27] L. Mlečin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti editore, 2010, pp. 84 e ss. (un testo molto documentato, benché esprima a più riprese simpatie sioniste e staliniste). L’appoggio dell’Urss al sionismo non si limitò al voto favorevole in sede Onu: vennero fornite armi pesanti, a dispetto dell’embargo vigente, durante la prima guerra arabo-israeliana, attraverso la Cecoslovacchia: ivi, pp. 131 e ss. In ogni caso, tutta la vicenda mostra una volta di più la miopia della cricca burocratica sovietica nell’usare il movimento sionista in funzione antioccidentale, mettendo peraltro una pietra sopra alla denuncia del sionismo fatta dall’Internazionale comunista (A. Agosti, La Terza Internazionale, Editori Riuniti, 1974, t. I, p. 247), il cui Comitato esecutivo raccomandava ai comunisti di tenere nei confronti del sionismo «un atteggiamento di assoluta ostilità» (J. Degras, Storia dell’Internazionale comunista, Feltrinelli editore, 1975, t. I, p. 389).
[28] Riportato da R. Schoenman, op. cit., pp. 76–77.
[29] È utile, inoltre, la lettura dell’articolo di S. Misleh, “Sionismo e pulizia etnica del popolo palestinese” (http://tinyurl.com/pa3fa43).
[30] Con rara lungimiranza, A. Léon (op. cit., pp. 214 e ss.) aveva previsto la possibilità che in Palestina sorgesse uno Stato ebraico dipendente dall’imperialismo, escludendo categoricamente che tale soluzione potesse costituire una soluzione della questione ebraica.
[31] Per una disamina degli argomenti “pseudogenetici” che il sionismo, con risultati spesso grotteschi, pone alla base del concetto di “razza” ebraica, S. Sand, op. cit., pp. 379 e ss. È evidente che una simile normativa accomuna l’ideologia sionista a quella nazista, costruita sugli stessi falsi presupposti. Giova anche sottolineare che Israele è uno Stato teocratico, perché costituito sulla base di un criterio religioso.
[32] L’applicazione di questa norma ha garantito, insieme ai finanziamenti miliardari da parte dell’imperialismo statunitense, la “accumulazione primitiva” del sionismo. Quanto all’entità dei finanziamenti ricevuti dagli Usa, fra il 1949 e il 1966 sono stati versati a Israele 7 miliardi di dollari: per avere un termine di comparazione, l’importo del Piano Marshall (1949–1954) fu di 13 miliardi di dollari!
[33] S. Sand, op. cit., p. 430.
[34] R. Schoenman, op. cit., pp. 103–119.
[35] «Nella sfera della nazionalità solo il socialismo può portare la democrazia più ampia. Esso deve fornire agli ebrei l’opportunità di conservare le proprie caratteristiche nazionali in tutti i Paesi i cui vivono, di concentrarsi in uno o più territori, naturalmente senza recare pregiudizio agli interessi delle popolazioni locali. Solo la più ampia democrazia proletaria renderà possibile la soluzione della questione ebraica riducendo al minimo gli inconvenienti» (A. Léon, op. cit., pp. 227–228, riprendendo un concetto pochi anni prima accennato da Trotsky: v. nota 42).
[36] Http://tinyurl.com/okfgtcm.
[37] Http://tinyurl.com/pvy7zaa.
[38] Nella sua sempiterna foga di accreditarsi come soggetto politico affidabile, il segretario del Prc non si è fatto scrupolo di dichiarare: «Non sono mai stato antisionista … io penso che sia giusto che ci sia lo Stato di Israele lì». Ascoltare per credere: http://tinyurl.com/m2feqg7, al minuto 3’55” del video.
[39] Http://tinyurl.com/zzm9cgs.
[40] N. Moreno, “Por una Palestina laica, democrática y no racista” (http://tinyurl.com/nc9nw8r).
[41] È indubbio che la questione palestinese creata dal sionismo abbia inevitabilmente seminato odio contro gli ebrei nei Paesi arabi dove un tempo l’antisemitismo era praticamente sconosciuto.
[42] I limiti di spazio per questo articolo non ci hanno consentito di soffermarci sulla lettura che Trotsky – di discendenza ebrea – dava della questione ebraica. Benché non l’abbia affrontata specificamente e non le abbia dedicato testi organici di una certa importanza, ci limitiamo a segnalare qui che egli fu l’unico a prevedere lo sterminio degli ebrei (“La borghesia ebrea e la lotta rivoluzionaria”, 22/12/1938, in Œuvres, vol. 19, Institut Léon Trotsky, 1985, p. 273), ma che in ogni caso la sua visione fondamentale rispetto alla questione ebraica era strettamente legata al destino della rivoluzione permanente mondiale: persino quando arrivò a non escludere la possibilità (“Termidoro e l’antisemitismo”, 22/2/1937, op. cit., vol. 12, p. 351) che, in regime di federazione socialista, un governo operaio potrebbe dover creare, ove gli ebrei lo volessero, le condizioni per il pieno sviluppo del loro popolo. Tutto ciò, naturalmente, senza cedere di un solo millimetro rispetto alle posizioni del sionismo, considerato “utopico e reazionario”.
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