Il crollo della Seconda Internazionale
Dal raggruppamento di Zimmerwald alla Terza Internazionale
Valerio Torre
«La socialdemocrazia […] ha raccolto nel corso di un cinquantennio
i più ricchi frutti dalla conoscenza teorica del marxismo
e si è ingigantita con le sue linfe vitali.
Posta davanti alla sua più grande prova storica,
[…] le mancò completamente […] l’energica volontà
non solo di intendere la storia, ma anche di farla.
Con tutta la sua esemplare conoscenza teorica
e con tutta la sua forza organizzativa,
presa dal gorgo del torrente della storia,
in un attimo essa divenne come un rottame senza timone
in preda al vento dell’imperialismo,
contro cui avrebbe dovuto seguitare a lavorare
per raggiungere l’isola salvatrice del socialismo.
La disfatta di tutta l’Internazionale era già scontata».
(R. Luxemburg)
A differenza della Prima Internazionale, che si atteggiò come un fronte unico fra organizzazioni operaie e dirigenti rivoluzionari e non giunse mai a essere un partito mondiale, la Seconda Internazionale fu una federazione di partiti socialdemocratici[1], alcuni dei quali avevano realmente peso e influenza di massa. In particolare, fu attorno alla socialdemocrazia tedesca, grazie soprattutto all’opera teorica di Engels, che, dopo la morte della Prima, una nuova Internazionale poté dirsi rinata.
E fu proprio il carattere federativo appena segnalato[2] a costituire il tratto dominante della Seconda Internazionale. Al di là della tendenza all’unità e all’universalità del movimento, all’internazionalizzazione dei rapporti, al di là dunque della condivisione a livello generale dei principi del socialismo, era presente nella nuova organizzazione la tendenza alla diversificazione nazionale per l’adattamento a pratica politica del socialismo da parte di alcuni partiti: e così, convivevano nella Seconda Internazionale il jauressismo francese, il tradeunionismo inglese, il socialismo scandinavo, l’ortodossia kautskiana della socialdemocrazia tedesca, il movimento rivoluzionario russo, l’austromarxismo[3].
Alcune di queste erano concezioni addirittura non marxiste. Ma anche in ambito marxista era possibile riscontrare notevoli differenze che emergeranno soprattutto nella fase di vita della Seconda Internazionale che si svolse nel primo decennio del Novecento.
Tra l’altro, è difficile persino usare il termine “organizzazione” per la Seconda Internazionale, visto che, per l’esasperazione della connotazione federativa, essa rifiutò di dotarsi di una struttura precisa e, fino al 1900 – quando il Congresso di Parigi finalmente deliberò di creare una struttura di coordinamento, il Bureau Socialiste International (Bsi[4]) – addirittura di affermarsi come istituzione ed organizzazione permanente[5]. Il suo carattere essenziale fu quello di un’istituzione di tipo parlamentare, tanto che i congressi venivano definiti “futuro parlamento del proletariato”, che evitava accuratamente però di intervenire negli affari interni delle sezioni nazionali, che avevano una pressoché totale autonomia nelle decisioni tattiche: le stesse risoluzioni adottate erano considerate regole di azione socialista, ma solo di carattere morale, prive di sanzione politica.
E infatti, anche la creazione di un coordinamento e di una segreteria permanente – che pure fu percepita come il segnale della vera rinascita dell’Internazionale – non mutò il principio della salvaguardia dell’autonomia nazionale delle sezioni, considerato perfino come il bene maggiore da difendere. In questo senso, è possibile dire che la Seconda Internazionale nacque sotto il segno di un fragile compromesso, con contraddizioni che si protrassero irrisolte, come vedremo, fino all’ignominioso crollo dell’agosto 1914, col voto dei crediti di guerra.
La grande crescita e il germe dell’opportunismo
Eppure, nei dieci anni successivi alla sua fondazione, la Seconda Internazionale andò aumentando la sua influenza e il suo prestigio. I congressi dibattevano animatamente e votavano risoluzioni sui principali problemi che il movimento operaio incontrava sul suo cammino; e dopo i congressi dell’Internazionale, i partiti nazionali discutevano quelle stesse decisioni. Questo complesso processo determinò l’accrescimento permanente del livello teorico e politico del movimento operaio nel suo insieme, con la grande avanzata soprattutto di quello europeo[6]. Ciò era la conseguenza del progetto politico della Seconda Internazionale, quello che, in contrapposizione al suo carattere federativo, ne rappresentava il cemento: vale a dire, l’inserzione profonda della politica nel movimento operaio. Si trattava, tuttavia, di una politica dominata dalla partecipazione elettorale: certo, allo scopo – come recita una delle tante risoluzioni adottate – di «conquistare i diritti politici e di servirsene in tutti i corpi legislativi e amministrativi per realizzare le rivendicazioni del proletariato e impadronirsi dei poteri politici […] per trasformarli in mezzi di emancipazione del proletariato»[7]; certo, stando bene attenti a far sì che «in nessun caso l’azione politica [possa] servire a compromessi o alleanze che attenterebbero ai principi e all’indipendenza dei partiti socialisti»[8]; nondimeno, si trattava di una pratica di partiti ripiegati sul proprio carattere nazionale e sempre più contaminati dalla democrazia rappresentativa borghese.
A ben vedere, è esattamente in questa pratica che possiamo riscontrare gli elementi della genesi del riformismo: il modello della politica borghese e il suo concetto di rappresentatività erano via via sempre più profondamente penetrati nel corpo del movimento operaio. Con la paradossale conseguenza che, mancando di un modello alternativo (cioè quello realmente rivoluzionario), e nell’incapacità congenita di dotarsene, la trasformazione del proletariato in forza nazionale e la sua stessa strutturazione come tale provocarono, da un lato, un suo straordinario rafforzamento e, dall’altro, la sua sottomissione ai meccanismi democratico-borghesi. Dunque, quanto più il movimento operaio diveniva protagonista delle dinamiche di massa e antagonista rispetto al potere capitalistico, tanto più le sue organizzazioni nazionali, nel quadro di una Seconda Internazionale così concepita, si trasformavano in apparato conservatore dei risultati ottenuti.
Questa tendenza fece sì che l’orizzonte delle riforme immediate prendesse il sopravvento sull’obiettivo della conquista del potere, relegando in secondo piano il programma socialista per perseguirla.
Il quadro generale che si era andato determinando dall’inizio del Novecento favoriva quest’esito. La lettura dei processi storici e sociali dei primi anni di vita della Seconda Internazionale era venata da un accentuato positivismo e da un predominante determinismo che potremmo definire quasi “darwinismo marxista”: di fronte alla crisi economica dell’ultimo quarto di secolo, si considerava che le contraddizioni interne al sistema capitalistico, il carattere irrazionale della produzione determinata da un sistema anacronistico, avrebbero portato a un suo ineluttabile e prossimo crollo. La socialdemocrazia doveva soltanto prepararsi mediante l’organizzazione a sostituire quel sistema. Alla dialettica dei processi storici si sostituiva una visione evoluzionistica: la rivoluzione era razionalizzata come un evento quasi naturale. Benché sia sempre rimasto fedele alla dialettica rivoluzionaria di Marx, in una prospettiva allo stesso tempo rivoluzionaria ed evoluzionistica, ma rifuggendo ogni forma di fatalismo nella lettura dei processi storici[9], lo stesso Engels non fu immune da quest’influsso quando scrisse: «Possiamo incrociare le braccia e lasciare che i nostri nemici lavorino per noi»[10]. L’attendismo rivestito di fraseologia rivoluzionaria divenne il tratto caratteristico di quegli anni.
Appunto perché bisognava solo prepararsi nell’attesa, la socialdemocrazia, anche allo scopo di ottenere con la propria forza miglioramenti di vita per i lavoratori, si trasformò sempre più in apparato, la cui natura conservatrice la induceva a mantenere i privilegi conseguiti, piuttosto che avventurarsi in incerti progetti rivoluzionari. Ed è esattamente in questo quadro che possiamo ravvisare l’origine dell’opportunismo, che Lenin avrebbe poi caratterizzato come il sacrificio degli interessi vitali e di lungo periodo del partito a quelli temporanei, effimeri e secondari. Nel nuovo contesto internazionale d’inizio secolo, la rivoluzione attesa come fase successiva dell’evoluzione sociale non si era prodotta. Anzi, il capitalismo aveva superato il periodo di crisi, incontrando una nuova crescita e un più accentuato sviluppo ed entrando nella fase dell’imperialismo: in un’epoca di nuovi profitti, quelli derivanti dalle politiche coloniali, il capitalismo poteva permettersi il lusso di elargire ai movimenti operai dei Paesi colonizzatori concessioni sociali e aumenti salariali, determinando così il nascere e l’affermarsi di un nuovo strato del proletariato, l’aristocrazia operaia, che costituirà il tassello per la definitiva integrazione della classe operaia al sistema borghese e ai suoi valori; e che contemporaneamente diventerà la base sociale delle nascenti burocrazie politiche e sindacali.
Tanto per fare un esempio, Eduard Bernstein, massimo esponente della destra opportunista della Seconda Internazionale, sosteneva che necessariamente dovessero esistere due classi di poveri, quelli dominatori e quelli dominati; e che questi ultimi dovessero essere considerati come bambini incapaci di emanciparsi. Conseguentemente, la politica coloniale sarebbe stata inevitabile, anche sotto il socialismo[11].
Come vedremo, dunque, con l’affermarsi del revisionismo opportunista e della sua base materiale, venne a compimento il paradosso per cui l’espansione delle organizzazioni politiche e sindacali della classe operaia rappresentò, da un lato, l’affermazione dell’indipendenza di classe; e, dall’altro, una limitazione delle energie rivoluzionarie del proletariato. Si può dire insomma che la fase della formazione organizzativa del movimento operaio coincise con la sua deviazione ideologica[12]: la conquista di obiettivi immediati divenne la priorità rispetto alla preparazione della futura rivoluzione, alla presa del potere; l’inserzione nella politica nazionale venne ritenuta più importante rispetto all’affermazione dell’ideale internazionalista.
I marxisti conseguenti combatterono, lungo tutto il periodo storico che ci accingiamo ad esaminare, un’aspra battaglia all’interno della Seconda Internazionale, contro il revisionismo dell’ala opportunista, i cui esponenti partivano dal presupposto per cui le condizioni oggettive non erano mature per la rivoluzione, sicché la lotta per le riforme era l’essenza stessa del movimento socialista.
Il riformismo opportunista e la battaglia della sinistra
Queste premesse, unite alla considerazione che l’attesa catastrofe del sistema capitalistico non si era più verificata e che la società capitalista aveva dimostrato un’inattesa capacità di adattamento alle crisi, spinsero nel 1899 il socialdemocratico tedesco Bernstein a teorizzare il superamento del marxismo e la costruzione di un nuovo tipo di socialismo, basato sullo stabilirsi di relazioni pacifiche fra le classi e le nazioni, nella convinzione che il capitalismo sarebbe progressivamente e pacificamente evoluto verso il socialismo. Il partito andava concepito quindi come portatore di riforme socialiste e democratiche, da attuarsi mediante alleanze con i settori progressisti. Il socialismo sarebbe stato raggiunto attraverso un quotidiano processo, lungo e paziente, di riforme, in grado di trasformare dall’interno la società capitalistica.
Queste posizioni rappresentavano la teorizzazione cosciente di quella pratica – su cui ci siamo finora soffermati – di inserzione profonda del movimento operaio nella società borghese attraverso la via parlamentare[13].
La sinistra della socialdemocrazia tedesca (la più forte tra le sezioni della Seconda Internazionale), rappresentata da Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Clara Zetkin, e il centro, con Karl Kautsky e August Bebel, condannarono congiuntamente le tesi di Bernstein, che, come vedremo, uscirà sconfitto in linea di principio da una disputa[14] che non era solo teorica, ma aveva invece evidenti ricadute pratiche.
Tuttavia, mentre la sinistra – soprattutto con Rosa Luxemburg, che contro Bernstein scrisse il famosissimo saggio Riforma sociale o rivoluzione?[15] – ribadiva l’essenza rivoluzionaria del marxismo contro ogni tentazione riformista, il centro ortodosso di Kautsky muoveva a Bernstein una critica solo apparente perché tendente in ultima analisi a una conservazione solo “cartacea” del marxismo, che veniva imbalsamato e ridotto a feticcio, pagandogli il dovuto tributo verbale. In particolare, la difesa teorica di Kautsky contro gli attacchi di Bernstein rendeva il marxismo un’astrazione dogmatica: i principi del marxismo in Kautsky servivano a dare copertura ideologica alla pratica riformistica che, nei fatti, veniva ritenuta indispensabile.
Il carattere – nient’affatto puramente teorico – della polemica contro i revisionisti venne reso evidente dal congresso che la Seconda Internazionale celebrò a Parigi nel 1900, in cui fu affrontato il caso Millerand[16].
Il congresso, fedele alla regola di non ingerenza negli affari interni delle sezioni nazionali, non si pronunciò nel merito, pur vedendosi obbligato a discutere del caso nel quadro dell’analisi teorica del problema della conquista del potere e della relativa tattica, compresa quella delle alleanze con i partiti borghesi.
La risoluzione finale, redatta personalmente da Kautsky, fu di un’incredibile ambiguità, sulla scia appunto della difesa solo di facciata dei principi del marxismo da parte del centro kautskiano, e rappresentò comunque il lasciapassare teorico per un’interpretazione “libera” delle questioni relative alla tattica dal parte delle sezioni nazionali: «In uno Stato democratico moderno, la conquista del potere politico da parte del proletariato non può essere il risultato di un colpo di mano, ma di un lungo e faticoso lavoro d’organizzazione proletaria sul terreno economico e politico, della rigenerazione fisica e morale della classe operaia e della conquista graduale delle municipalità e delle assemblee legislative […] La lotta di classe proibisce ogni genere di alleanza con una qualunque frazione della classe capitalista, ma ammette che circostanze eccezionali possano rendere necessarie delle coalizioni (beninteso, senza confusione di programma e di tattica)»[17].
Nel 1903, al congresso della socialdemocrazia tedesca di Dresda, le posizioni di Bernstein vennero formalmente ripudiate. La sinistra e il centro kautskiano adottarono una risoluzione, da questo punto di vista, inequivoca: «Il congresso condanna nella maniera più assoluta il tentativo revisionista di alterare la nostra tattica più volte sperimentata e vittoriosa, che si fonda sulla lotta di classe. I revisionisti vogliono sostituire alla conquista del potere politico tramite la completa sconfitta dei nostri nemici una linea d’azione che prevede di andare incontro a metà strada all’ordine di cose esistente […] Da tale tattica revisionista conseguirebbe la trasformazione del nostro partito […] [che da] partito veramente rivoluzionario nel miglior senso della parola […] diventerebbe un partito che si accontenta semplicemente di riformare la società borghese. Il congresso condanna inoltre ogni tentativo di velare con belle frasi gli attuali e sempre crescenti conflitti di classe nell’intento di trasformare il nostro partito in un satellite di partiti borghesi»[18].
Successivamente, la sconfitta di Bernstein venne sancita anche a livello internazionale dal congresso di Amsterdam della Seconda Internazionale nel 1904, che adottò la risoluzione del congresso tedesco di Dresda.
In questo senso, il revisionismo sembrava ormai definitivamente battuto in un quadro di forte radicalizzazione del movimento operaio determinato dalla rivoluzione russa del 1905, il cui scoppio generò un clima di esaltazione: lo sciopero generale politico e i soviet contagiarono il proletariato europeo con la dimostrazione della necessità di una strategia rivoluzionaria e di una tattica che ponessero al centro della sua azione la lotta di classe. Scrive Trotsky: «La rivoluzione russa fu il primo grande avvenimento che portò una boccata d’aria fresca nella bonaccia dell’Europa di trentacinque anni dopo la Comune di Parigi. Il rapido sviluppo della classe operaia russa e la forza inaspettata della sua concentrata attività rivoluzionaria produssero una grande impressione in tutto il mondo civilizzato e dappertutto diedero impulso, acuendo le differenze politiche. In Inghilterra, la rivoluzione russa accelerò la formazione di un partito operaio indipendente. In Austria, grazie a circostanze speciali, portò al suffragio universale […] In Francia, l’eco della rivoluzione russa assunse la forma del sindacalismo, che dava corpo, sebbene in forma teorica e pratica inadeguata, al risveglio delle tendenze rivoluzionarie del proletariato francese. E in Germania, l’influenza della rivoluzione russa si fece sentire nel rafforzamento dell’ala sinistra del partito, nell’avvicinamento a essa del centro dirigente e nell’isolamento del revisionismo […] E il partito adottò […] il metodo rivoluzionario dello sciopero generale»[19].
Il riflusso e i prodromi della capitolazione
Il 1905 vide dunque il punto più alto della traiettoria della Seconda Internazionale[20], che ormai era diventata un movimento davvero mondiale. Eppure, proprio nel momento in cui le posizioni dell’ala sinistra sembravano affermarsi sospinte dal vento rivoluzionario che spirava in Russia, mentre non solo il revisionismo opportunista, ma anche il centrismo riformista sembravano messi in un angolo, la sconfitta della rivoluzione russa fece rialzare la testa ai moderati. Sempre Trotsky scrive: «Dappertutto un riflusso politico seguì all’alta marea rivoluzionaria. In Russia trionfò la controrivoluzione e iniziò un periodo di decadenza per il proletariato russo, tanto nella politica quanto nella forza delle sue organizzazioni. In Austria tutto cominciò con l’indebolimento della classe lavoratrice; la legislazione in tema di sicurezza sociale imputridiva nei gabinetti del governo, i conflitti nazionali ripresero con rinnovato vigore […] debilitando e dividendo la socialdemocrazia. In Inghilterra il partito laburista, dopo essersi separato dal partito liberale, si strinse nuovamente ad esso. In Francia i sindacalisti passarono a posizioni riformiste […] E nella socialdemocrazia tedesca i revisionisti rialzarono la testa, incoraggiati dal fatto che la storia aveva dato loro una simile rivincita […] I marxisti furono costretti a cambiare le loro tattiche, passando dall’offensiva alla difensiva. Gli sforzi dell’ala sinistra per portare il partito verso una politica più attiva non diedero esito. Il centro dirigente si orientava sempre più verso destra, isolando i radicali. I conservatori, riprendendosi dai colpi ricevuti nel 1905, trionfarono su tutta la linea»[21].
Forte della sconfitta della rivoluzione in Russia, impugnando la bandiera della pratica del parlamentarismo riformista, l’ala revisionista, questa volta spalleggiata anche dal centro, prese il sopravvento. A partire dal 1906, la Seconda Internazionale iniziò – pur senza teorizzarlo chiaramente – ad agire diversamente: partendo dalla premessa per cui negli ultimi cento anni il capitalismo aveva continuato nella sua espansione sviluppando oltremodo le forze produttive, i riformisti ritenevano possibile elevare il livello di vita dei lavoratori ottenendo maggiori libertà politiche. Questi obiettivi si sarebbero potuti raggiungere via via rafforzando il potere delle organizzazioni operaie, dei sindacati, delle cooperative, dei partiti politici, e ottenendo sempre più deputati. Questa visione era ciò che veniva definito “programma minimo”: che in realtà divenne il vero programma della socialdemocrazia, mentre il “programma massimo”[22] restò relegato negli infuocati discorsi del Primo Maggio. Si trattava, insomma, del definitivo approdo all’ipotesi parlamentarista, con le devastanti conseguenze che vedremo. E, come ebbe a dire Bernstein, le sue posizioni, benché sconfitte nei congressi, avevano in realtà vinto nella pratica.
Abbiamo già accennato al fatto che, contro il revisionismo e la pratica riformista, la sinistra sviluppò una forte battaglia. Tuttavia, quest’ala, numericamente debole e geograficamente dispersa, con espressioni anche fortemente differenziate al suo interno, non riuscì a costituirsi organicamente, anche per la mancanza di una base materiale, cioè di un partito che rappresentasse un’autentica forza politica nel suo quadro nazionale. Basti pensare che si raggrupparono intorno a queste idee la sinistra della socialdemocrazia tedesca (con Rosa Luxemburg, Franz Mehring, e Parvus), i tribunisti olandesi di Pannekoek, l’ala radicale del partito bulgaro guidata da Dimitrov (i cosiddetti “stretti”), i bolscevichi russi. È importante però notare che, al di là della debolezza che caratterizzava la sinistra, nell’esperienza della Seconda Internazionale venne così forgiandosi quel nucleo di rivoluzionari intorno a cui sarebbe poi nata la corrente senza la quale l’internazionalismo marxista non avrebbe avuto voce.
Il congresso di Stoccarda, celebratosi nel 1907, fu l’unico momento in cui la sinistra della Seconda Internazionale riuscì a trovare un momento di unità, che rimase però limitata alla discussione contingente sui temi del congresso, mentre già allora Lenin era dell’idea di creare un coordinamento internazionale stabile della sinistra per contrastare il riformismo. Dunque, a Stoccarda il dibattito congressuale si soffermò su due temi: da un lato, la pace e la risposta del movimento operaio alla guerra che andava profilandosi in Europa; dall’altro, la politica coloniale. Si tratta di due temi importanti per comprendere ciò che sarebbe poi accaduto nella Seconda Internazionale il 4 agosto del 1914.
Sull’analisi della guerra come fenomeno capitalistico tutte le anime erano d’accordo. Le divergenze si manifestavano sulla tattica. Se da una parte le differenze tra i socialisti francesi, tedeschi e austriaci soprattutto, si attenuavano in ragione della comune prospettiva pacifista riformista, dall’altra la minoranza di sinistra sviluppò unitariamente una battaglia rivoluzionaria proprio contro quel pacifismo riformista presentando un emendamento – che peraltro venne assunto nella risoluzione finale – con il quale esprimeva la prospettiva rivoluzionaria che connotava il suo orientamento politico. Occorre segnalare che questa risoluzione (riconfermata integralmente al successivo congresso di Copenaghen del 1910[23]) sarà una di quelle che, al momento fatidico dello scoppio della guerra, verranno in un sol colpo dimenticate dalla maggioranza dirigente della Seconda Internazionale. L’altro tema dibattuto al congresso di Stoccarda fu quello della politica coloniale.
La discussione sulla questione coloniale
Sul colonialismo la Seconda Internazionale ebbe le idee molto confuse. La generica opposizione alle penetrazioni coloniali degli Stati si basava su una visione per lo più etica o filantropica, di denuncia paternalistica delle sofferenze inflitte dalla brutalità dei conquistatori. A una posizione tradizionale di chi vedeva l’origine del fenomeno coloniale nel capitalismo imperialista in quanto tale, si affiancava la posizione di chi (Vandervelde, Jaurès e Bernstein) teorizzava la necessità di un “colonialismo buono”, connotato da paternalismo, necessario per l’industrializzazione e inevitabile anche in regime socialista. Al congresso di Stoccarda il contrasto fra questa posizioni, fino ad allora latente, esplose in tutta la sua virulenza. La risoluzione proposta da Van Kol aveva un evidente carattere socialcolonialista: in essa si affermava che «il Congresso … non condanna in via di principio e in assoluto qualsiasi politica coloniale, che, in regime socialista, potrà essere un’opera di civilizzazione»[24].
L’agghiacciante proposta venne respinta con una risicatissima maggioranza (127 voti contro 108) grazie a un emendamento proposto dalla sinistra, che invece condannava la politica coloniale. Va notato che questa maggioranza non rappresentava il reale orientamento del congresso: solo l’autorità di Kautsky, che gettò tutto il proprio peso politico in questa battaglia, consentì tale risultato. E occorre considerare, proprio per comprendere cosa si agitasse nell’intimo della Seconda Internazionale, che la condanna della politica coloniale veniva perlopiù dai delegati di Paesi non direttamente coinvolti nella spartizione coloniale, mentre quelli degli Stati predatori erano in gran numero favorevoli alla posizione socialcoloniale. E così, la maggioranza dei delegati francesi e inglesi, nonché la totalità dei tedeschi, belgi e olandesi, votarono per la proposta di Van Kol. Solo i delegati russi, fra quelli appartenenti alle grandi nazioni colonizzatrici, sostennero l’emendamento della sinistra all’unanimità.
In realtà, il congresso di Stoccarda, che apparentemente rappresentò una vittoria della sinistra rivoluzionaria contribuendo al suo consolidamento, costituì invece il definitivo approdo dell’Internazionale alle tesi parlamentariste e riformiste. Trotsky stesso racconta: «A Stoccarda, al congresso dell’Internazionale, si poteva sentire ancora un soffio della rivoluzione russa del 1905. Predominava la sinistra. Ma si notava già la sfiducia nei metodi rivoluzionari. Ci si interessava ancora dei rivoluzionari russi, ma già con un po’ di ironia […] Il delegato inglese Quelch […] aveva detto al congresso di Stoccarda con irriverenza che la conferenza diplomatica era un’adunata di briganti […] il governo del Württemberg espulse Quelch. Bebel masticò amaro, ma il partito non seppe far nulla contro l’espulsione. Neanche una dimostrazione di protesta. Quel congresso internazionale pareva un’aula scolastica: si mette fuori un ragazzo insolente e gli altri stanno zitti. Dietro le grandi cifre della socialdemocrazia tedesca si intravedeva un’ombra di impotenza»[25].
Dunque, il congresso di Stoccarda stava indubbiamente preannunciando il tragico futuro della Seconda Internazionale, che si compì con lo scoppio della prima guerra mondiale.
Intanto, nell’ottobre del 1912, allorquando il Montenegro dichiarò guerra alla Turchia il pericolo di un conflitto bellico su scala mondiale si fece via via più imminente. Il Bsi della Seconda Internazionale convocò d’urgenza (era la prima e fu l’ultima volta che ciò accadde) un congresso straordinario a Basilea per il 24 e 25 novembre 1912. All’unanimità, i delegati al congresso approvarono un manifesto, noto come Manifesto di Basilea, con il quale si ribadiva la linea della “guerra alla guerra” e si denunciava il carattere interimperialistico del conflitto. La risoluzione riaffermava la posizione di principio – già adottata nei precedenti congressi – della lotta operaia contro la guerra. In particolare, riprendendo gli esempi della Comune di Parigi dopo la guerra franco-prussiana e della rivoluzione russa del 1905 durante la guerra russo-giapponese, proclamava ai governi, e lo faceva con un tono ultimativo, che il proletariato avrebbe adottato tutti i mezzi a sua disposizione per evitare il conflitto, ma che nel caso la guerra fosse comunque scoppiata il movimento operaio avrebbe utilizzato la crisi economica conseguente per sollevare le masse e accelerare la caduta della dominazione capitalistica.
Lo scoppio della guerra e la frantumazione dell’Internazionale
I tempi erano maturi per il precipitare degli eventi: gli imperialismi europei avevano accumulato parecchie fascine e l’atmosfera era gravida di tensioni. La scintilla deflagrò il 28 giugno 1914, con l’attentato di Sarajevo in cui trovò la morte l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austriaco. Nel luglio successivo l’impero austroungarico diede alla Serbia un ultimatum concepito in modo tale da dover essere respinto, tanto era umiliante. L’ultimatum venne rifiutato.
Il 29 luglio, quando le truppe austriache entrarono a Belgrado, i partiti della Seconda Internazionale, rifacendosi al Manifesto di Basilea, organizzarono in Germania, in Austria, in Italia, in Francia, in Belgio, enormi manifestazioni contro la guerra: il proletariato, imbevuto di ingenua ideologia pacifista, era fiducioso che le mobilitazioni potessero fermare la macchina bellica, era ottimista sull’impossibilità che la guerra scoppiasse per davvero. Ma dietro quest’ottimismo si celava la fatalistica rassegnazione agli eventi.
Il Bsi, convocato d’urgenza lo stesso giorno, licenziò la seguente risoluzione: «Fa obbligo ai proletari di tutte le nazioni interessate non solo di proseguire, ma di intensificare le dimostrazioni contro la guerra, per la pace e il regolamento arbitrale del conflitto austro-serbo. I proletari tedeschi e francesi faranno una pressione più energica che mai sul loro governo, affinché la Germania eserciti sull’Austria un’azione moderatrice e la Francia ottenga dalla Russia che non s’impegni nel conflitto […] Il congresso, convocato d’urgenza a Parigi, sarà la vigorosa espressione di questa volontà pacifica del proletariato mondiale»[26].
Quante frasi vuote! Il partito tedesco pubblicò un manifesto con cui esigeva dal suo governo che non entrasse in guerra. Ma il successivo primo agosto la Germania, per nulla spaventata dalla “intimazione” della socialdemocrazia, dichiarò guerra alla Russia. In Francia vennero organizzate grandi manifestazioni operaie. Ma il governo francese, incurante delle dimostrazioni, diede un sostanziale via libera allo zar per la mobilitazione delle sue truppe. E infine, quel congresso – prova evidente dell’impotenza della Seconda Internazionale – superato dagli eventi, non venne più celebrato.
In quelle ore la socialdemocrazia tedesca giocò un ruolo pari al peso politico che aveva nella Seconda Internazionale: avrebbe dovuto essere il partito trainante nella direzione della rivoluzione, lo fu invece nella direzione opposta, quella della chiamata alle armi in difesa degli interessi della propria borghesia. Il primo agosto il partito tedesco assicurò per bocca di uno dei suoi dirigenti – Hermann Müller, inviato in Francia per concordare con la direzione e il gruppo parlamentare del partito francese un’azione comune dei due partiti socialisti – che mai sarebbero stati votati in parlamento i crediti di guerra[27]. E invece, solo tre giorni dopo, il gruppo parlamentare ne votò all’unanimità la concessione (anche Karl Liebknecht, nella seduta parlamentare del 4 agosto, si adeguò per disciplina di partito e perché convinto di potersi battere all’interno del partito per sconfiggere le posizioni maggioritarie; salvo poi, nella successiva sessione del 2 dicembre, votare contro la concessione di ulteriori crediti al governo).
La guerra imperialista costituisce da sempre lo spartiacque all’interno del movimento operaio. Nel 1914, la Seconda Internazionale avrebbe dovuto scontrarsi con gli imperialismi nazionali, praticare quello che secondo Lenin era il “disfattismo rivoluzionario” trasformando, secondo la felice espressione di Liebknecht, la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria. Quella guerra costituì una grande prova. Ma la Seconda Internazionale non superò quella prova. Uno dopo l’altro, tutti i dirigenti socialisti, di qualsiasi Paese, votarono i crediti di guerra per i propri governi. Uno spirito nazionalista patriottardo pervase la classe operaia. E i lavoratori non si rendevano conto di essere avviati al macello contro la propria stessa classe per difendere gli interessi di coloro che li sfruttavano in pace per mandarli poi a morire in guerra sempre per lo stesso motivo: il profitto. La borghesia imperialista sapeva di aver fatto un buon investimento cooptando la socialdemocrazia nei propri apparati governativi; sapeva che, al momento opportuno, quella socialdemocrazia si sarebbe dimostrata un buon patriota. Ciò spiega anche perché, di fronte alle “intimazioni” a non entrare in guerra e alle pur grandi manifestazioni dei giorni precedenti, i governi nazionali proseguirono indisturbati a mobilitare le truppe.
Il tradimento dei dirigenti socialdemocratici non affondava le proprie radici, ovviamente, solo nelle posizioni della destra opportunista, ma soprattutto nella completa capitolazione del centro kautskiano che, pur avendo assunto nei precedenti congressi risoluzioni dal tono rivoluzionario contro la guerra, divenne social-patriottico. Anzi, fu proprio il ruolo del centrismo a sancire l’insperata vittoria della destra opportunista (che, come abbiamo visto, era stata invece sconfitta al congresso del 1904) e a condannare così a morte la Seconda Internazionale che a quel punto divenne, come la definì Rosa Luxemburg, “un cadavere fetido”. Giustamente, Lenin poté scrivere: «Se gli opportunisti … festeggiano legittimamente la loro vittoria sul socialismo europeo, il servizio peggiore al proletariato lo rendono quegli individui che oscillano tra l’opportunismo e la socialdemocrazia rivoluzionaria (come il “centro” del Partito socialdemocratico tedesco), che tentano di passare sotto silenzio o di coprire con frasi diplomatiche il fallimento della Seconda Internazionale»[28]. Fu Lenin, infatti, a rimarcare in particolare il ruolo avuto dai centristi in quegli anni. Per Lenin, il “centro” non era convinto della necessità di una rivoluzione contro il suo stesso governo, non voleva la rivoluzione, non sviluppava vigorosamente la lotta rivoluzionaria; il “centro” era composto dagli adoratori della routine, corrotti dal cancro del legalitarismo e dall’atmosfera parlamentare, burocrati adattati a confortevoli posizioni e lavori leggeri. Nel disfacimento della Seconda Internazionale, Kautsky – che per la sua autorevolezza veniva definito “il papa” della Seconda Internazionale sia dai detrattori che dagli stessi socialisti (tanto che una volta i socialisti italiani inviarono alla sua anziana madre un biglietto di auguri per il suo compleanno con la dedica: “Alla mamma del papa”[29]) – ebbe una parte assolutamente centrale[30]. La sua strenua difesa dell’ortodossia marxista era soltanto apparente[31] e forniva ai revisionisti e ai riformisti le armi teoriche per trasformare la necessaria utilizzazione del parlamentarismo e della legalità borghese da strumenti in fine.
Lo storico e militante rivoluzionario Paul Frölich, cofondatore del Partito comunista tedesco nel 1918, scrive: «Il determinismo dominante nella Seconda Internazionale guardava alla rivoluzione come un evento che sarebbe risultato fatalmente dallo sviluppo intrinseco della società. Il marxismo era evirato e sostituito dall’attesa dell’azione cieca delle forze sociali, trascurando del tutto o sottovalutando enormemente che concretamente queste forze sociali sono persone, classi, partiti consapevoli del loro agire. Venne cancellato dal dibattito politico il concetto di rivoluzione come azione consapevole e organizzata del proletariato, abbandonandosi all’erronea tesi […], secondo la quale l’insurrezione armata apparteneva al passato e la socialdemocrazia, con metodi legali, avrebbe ottenuto risultati assai migliori»[32]. Ecco perché, dopo lo scoppio della guerra, Kautsky aveva respinto ogni idea di azione di massa contro il governo, giudicandola senza speranza: non a caso riteneva che l’Internazionale non fosse uno strumento efficace in tempo di guerra, essendo essenzialmente uno strumento di pace. Da buon centrista, ipotizzava un’azione della socialdemocrazia non antipatriottica, ma neanche sciovinista, così da preservare il futuro del partito tedesco e dell’Internazionale per il periodo post-bellico: per Kautsky la guerra imperialista era soltanto una parentesi in un processo di “democratizzazione” del capitalismo e dopo la guerra ci sarebbero state le condizioni per una politica più incisiva dei socialdemocratici[33].
Le ragioni del crollo
È visibile in questa costruzione un atteggiamento di paura: la paura di veder rovinare la potente macchina organizzativa socialdemocratica, prodotto di decenni di lavoro nelle istituzioni borghesi[34]; la paura della repressione statale e militare; la paura di immaginare un lungo periodo di lotta in condizioni di illegalità. E infatti, pochi giorni prima della dichiarazione di guerra, il ministero degli interni tedesco aveva rassicurato i rappresentanti sindacali che non avrebbero avuto nulla da temere, a condizione che i lavoratori si fossero comportati lealmente e tenendo presenti gli “interessi nazionali”[35]: dunque, la borghesia garantiva la sopravvivenza delle organizzazioni della classe operaia in cambio della pace sociale e della collaborazione[36]. Qui troviamo le ragioni profonde del crollo della Seconda Internazionale. E che dire, poi, delle risoluzioni – quella del congresso di Stoccarda del 1907, interamente ripresa dal successivo congresso di Copenaghen del 1910; oppure la risoluzione del congresso straordinario di Basilea del 1912 – che avrebbero dovuto guidare l’Internazionale nell’azione rivoluzionaria e che invece celavano, dietro la facciata dell’osservanza dei principi del marxismo, il più supino adattamento alla società borghese e ai suoi meccanismi di cooptazione? Sono testi inequivoci nella loro formulazione. Addirittura, regolavano con precisione assoluta l’azione del proletariato prima e durante la guerra, dettando una linea di condotta preventiva e un’altra successiva, dal carattere marcatamente rivoluzionario. Eppure, la prima venne attuata con ritardo e senza grande convinzione da parte dei dirigenti socialdemocratici, che erano ingenuamente (e colpevolmente) certi che mai la guerra sarebbe scoppiata; mentre la seconda scientemente non venne messa in atto. Quelle risoluzioni vennero in un solo istante non solo dimenticate, ma addirittura completamente rinnegate.
Di fronte a tutti questi esempi occorre riflettere alla ricerca di una spiegazione su come sia stata possibile una simile capitolazione dei partiti socialisti, delle loro organizzazioni sindacali e, in ultima analisi, della Seconda Internazionale, che decretò così la propria stessa morte. Accontentarsi della tesi del “tradimento” dei suoi dirigenti è davvero fermarsi alla superficie dei fatti[37]. Non si tratta qui di un disorientamento delle masse dovuto alla capitolazione dei suoi dirigenti. Il crollo così violento e repentino del potente apparato socialdemocratico e il delirio nazionalista e sciovinista in cui venne precipitato il proletariato vanno spiegati con le ragioni che in qualche modo emergono da quanto finora abbiamo visto. Vale a dire, la completa introiezione, da parte di un proletariato guidato da una direzione tutt’altro che rivoluzionaria, di tutti gli schemi e i meccanismi di una società borghese nella quale il movimento operaio si era inserito profondamente con lo scopo – teorizzato dalle sue avanguardie – di conquistarla dall’interno invece di distruggerla; l’adattamento alla politica riformista, che da programma minimo era divenuta il vero programma dell’Internazionale; la tendenza a farsi cooptare dal sistema capitalistico e la nascita, quindi, dell’aristocrazia operaia[38]. Il tutto in un quadro di difesa solo formale e apparente dei principi del marxismo, evocati in ogni risoluzione ma mai conseguentemente messi in pratica; con una scissione profonda fra teoria e prassi, tra mezzi e fini, che configura una vera e propria “schizofrenia politica”. La gravità del crollo della Seconda Internazionale fu direttamente proporzionale alla grandezza dell’apparato su cui si sosteneva, ed ebbe come conseguenza un pauroso arretramento politico delle classi lavoratrici.
La reazione della sinistra: la conferenza di Zimmerwald
Subito dopo il 4 agosto, grande fu lo sbigottimento e lo smarrimento per l’ignominiosa capitolazione della socialdemocrazia internazionale: lo stesso Lenin, appresa la notizia del voto ai crediti di guerra al parlamento tedesco, incredulo, pensò subito a un falso opportunamente confezionato dallo stato maggiore tedesco per confondere e ingannare. «Tanta era ancora, a onta del suo spirito critico, la fiducia di Lenin nella socialdemocrazia tedesca»[39]. Tuttavia, di fronte alla catastrofe della guerra, al macello che da subito andò profilandosi, iniziò a coagularsi un nucleo di rivoluzionari (soprattutto la sinistra della socialdemocrazia tedesca e i bolscevichi russi) fino ad allora isolati, minoritari e attraversati da divisioni teoriche, i quali imboccarono la strada di una strategia di fondo rivoluzionaria che metteva in collegamento la guerra e la rivoluzione, scagliandosi innanzitutto contro la concezione kautskiana, visionaria e assolutamente infondata, in una lotta a tutto campo contro chi aveva rinnegato i principi del marxismo paludandosi tuttavia dietro le risoluzioni che quei principi richiamavano. Attraverso una rigorosa delimitazione teorica che presupponeva la separazione assoluta dagli opportunisti e dai loro partiti, questa nascente corrente marxista rivoluzionaria lanciò un’aspra battaglia contro l’imperialismo e la sua barbarie guerrafondaia e, al contempo, una lotta intransigente contro il centrismo opportunista e filoimperialista per ricreare una coscienza proletaria in un movimento operaio infettato dallo sciovinismo nazionalista e adattato ai meccanismi della società borghese. Le parole d’ordine per questo scopo erano, da un lato, l’indicazione prioritaria che il principale nemico dei lavoratori di ogni nazione era l’imperialismo di casa propria, dall’altro, la necessità di trasformare la guerra imperialista in guerra civile e rivoluzionaria[40].
Da subito apparve necessario a questi rivoluzionari decretare la morte della Seconda Internazionale e fondare un altro soggetto di riferimento per la costruzione di un nuovo internazionalismo, raccogliendo l’eredità lasciata dalle prime due ma ponendosi all’altezza dei compiti che la situazione mondiale rendeva necessari: «La Seconda Internazionale è morta, vinta dall’opportunismo. Abbasso l’opportunismo e viva la Terza Internazionale, epurata non solo dei “transfughi” […], ma anche dell’opportunismo. Nell’ultimo terzo del secolo XIX e all’inizio del XX la Seconda Internazionale ha compiuto la sua parte di utile lavoro preparatorio, di organizzazione delle masse proletarie nel lungo periodo “pacifico” della più crudele schiavitù capitalistica e del più rapido progresso capitalistico. Alla Terza Internazionale spetta il compito di organizzare le forme del proletariato per l’assalto rivoluzionario contro i governi capitalistici, per la guerra civile contro la borghesia di tutti i Paesi, per il potere politico, per la vittoria del socialismo!»[41].
Tuttavia, le prime significative iniziative per radunare e far confrontare i socialisti contrari alla guerra non furono prese dai marxisti rivoluzionari, quanto piuttosto dai centristi pacifisti. Il 27 settembre 1914 si tenne a Lugano una riunione fra delegati dei partiti socialisti della Svizzera e dell’Italia, il cui scopo era verificare le modalità per convocare una conferenza socialista internazionale. Robert Grimm, della direzione del partito svizzero, e Oddino Morgari, della direzione del partito italiano e deputato, fecero il lavoro preparatorio[42].
L’organizzazione della conferenza – che si tenne dal 5 all’8 settembre del 1915 a Zimmerwald, un villaggio sulle montagne svizzere – venne affidata a Grimm. Vi parteciparono (in rappresentanza dei propri partiti, ma vi fu anche chi intervenne a titolo personale, visto che certi partiti non riconoscevano la legittimità della conferenza) delegati di Germania, Francia, Italia, Inghilterra, Russia, Polonia, Romania, Bulgaria, Svezia, Norvegia, Olanda e Svizzera. Merita di essere segnalata la grande ironia di Trotsky: «Ci pigiammo in quattro carrozze e salimmo verso la montagna. La gente guardava con curiosità quella strana carovana. I delegati scherzavano sul fatto che mezzo secolo dopo la costituzione della Prima Internazionale tutti gli internazionalisti trovavano posto in quattro carrozze. Ma nello scherzo non c’era nessuno scetticismo. Accade molte volte che il filo della storia si strappi. Allora bisogna riannodarlo. E fu quello che si fece a Zimmerwald»[43]. Trotsky stesso era uno dei delegati e, dopo Zimmerwald, rientrò a Parigi pieno zeppo di documenti e appunti che riuscì a far passare ai controlli alla frontiera con uno stratagemma dei suoi: inserendoli in una cartella con su scritto “Viva lo zar!”. I poliziotti non dubitarono che avevano di fronte un “buon” russo, un alleato, e lo fecero passare senza tante storie[44].
Dal racconto di Trotsky a Rosmer[45] emerge che, sin dall’apertura della conferenza, Lenin aveva depositato due testi: un progetto di risoluzione e un progetto di manifesto. In questi testi erano sviluppate le idee tipicamente leniniste: mostrare che la guerra è una guerra imperialista e trarne le dovute conseguenze; lotta senza quartiere contro i socialpatrioti, ma anche contro il centro kautskiano; i parlamentari socialisti avrebbero dovuto votare ovunque contro i crediti di guerra e costringere i ministri socialisti a dimettersi; necessità di chiamare le masse alla lotta rivoluzionaria contro i governi capitalistici e preparazione da subito delle basi per la nuova Internazionale. Ovviamente, queste idee suscitarono un’opposizione quasi unanime, soprattutto da parte degli organizzatori della conferenza, e in particolare degli italiani, che non avevano alcuna intenzione – con quella conferenza – di creare una nuova Internazionale, né di rompere con Kautsky. Con diciannove voti contro dodici, la conferenza respinse i testi dei bolscevichi come base di discussione e decise di elaborare un testo comprendente i punti su cui v’era l’accordo di tutti i delegati. La redazione di questo testo, noto come Manifesto di Zimmerwald, venne affidata a Trotsky, che era vicinissimo alle posizioni dei bolscevichi ma era anche duttile tanto da poter scrivere un documento che senza troppe resistenze – anche se con molte esitazioni dei soliti italiani – venne approvato all’unanimità.
I risultati di Zimmerwald
In un articolo scritto appena un mese dopo, Lenin – che, pur trovando eccellente il manifesto, non ne era del tutto soddisfatto perché non comprendeva tutto ciò che i bolscevichi avrebbero voluto inserirvi – lo definì “un passo avanti”. Sostenne che sarebbe stato settario non sottoscriverlo perché – aggiunse — «sarebbe [stata] una cattiva tattica militare rifiutare di marciare col crescente movimento internazionale di protesta contro il socialsciovinismo perché questo movimento è lento, perché compie “soltanto” un passo in avanti»[46]. Questa era la grandezza di Lenin: fiutato che c’era un movimento con un futuro dinanzi a sé, non si fece scrupolo di affiancarlo (s’intende, con la sua autonomia) e nonostante il suo passo fosse più spedito, ben sapendo che, se non l’avesse fatto, ne sarebbe stato prima o poi sopravanzato. Il manifesto, appunto, era volutamente vago nelle conclusioni rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti della guerra e alla necessità di una nuova Internazionale. Ma il seme era stato gettato: prima ancora che dal manifesto, fu dalla conformazione di un’opposizione interna a quel raggruppamento, nota come “sinistra di Zimmerwald”[47], che vennero poste le basi per la fondazione della futura Terza Internazionale.
Quale eco ebbe la conferenza di Zimmerwald? Sicuramente, gli esiti della conferenza dovettero passare attraverso le maglie di una triplice censura: quella governativa, quella socialista e quella sindacalista. Già: perché i partiti e i sindacati socialpatriottici erano, come sempre, un passo avanti ai governi borghesi di cui facevano parte, o delle cui briciole si nutrivano. E infatti, Rosmer osserva che in Francia la censura governativa fu quella meno rigorosa. In ogni caso, il movimento zimmerwaldiano si trovò contro, oltre alle polizie dei vari Paesi, i socialisti dell’Union sacrée, che mobilitarono la loro stampa e propaganda nel tentativo di passare sotto silenzio lo straordinario risultato della conferenza. Addirittura, il presidente della Seconda Internazionale, Vandervelde, girò la Svizzera in lungo e in largo per influenzare negativamente – ma senza esito – i nuclei socialisti[48].
Tuttavia, malgrado la censura e gli attacchi, le idee di Zimmerwald si aprirono la strada attraverso le frontiere degli Stati belligeranti e raccolsero numerosi sostenitori nel periodo che va dalla conferenza di Zimmerwald a quella che si svolse sempre in Svizzera, a Kienthal, dal 24 al 30 aprile 1916. Le delegazioni qui furono più numerose, con la partecipazione, tra gli altri, del neonato gruppo di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Il dibattito affrontò soprattutto due grandi questioni: quella dell’autodeterminazione dei popoli e del diritto di secessione (che non tratteremo qui, ma che vide opposti Rosa Luxemburg e Lenin); e quella relativa all’Internazionale. Su questo tema, in realtà, si confrontavano due diverse posizioni. Vi era chi, in particolare i delegati italiani, pensava e sperava – soprattutto dopo che il Bsi aveva intrapreso una limitata attività, perlopiù informativa – che la Seconda Internazionale potesse ricostituirsi con la semplice epurazione degli sciovinisti e dei socialimperialisti. Essi erano contrari a una scissione e ritenevano la fondazione di una nuova Internazionale un’avventura rischiosa. Lenin e Trotsky, invece, si contrapponevano a questa posizione partendo dalla constatazione per cui il crollo della Seconda Internazionale rappresentava la fine di un’epoca, una fase ormai chiusa della vita del movimento operaio. Non ci si poteva, dunque, fare alcuna illusione sulla possibilità di far rivivere un cadavere. Si doveva, invece, lavorare da subito all’edificazione della Terza Internazionale[49].
C’erano tuttavia dei delegati che esprimevano una posizione intermedia, attendista: ritenevano cioè che bisognasse attendere l’evoluzione delle cose. E, in realtà, fu proprio l’esistenza di questa posizione che consentì di elaborare una risoluzione tale da poter essere assunta da tutti i delegati: non si tagliavano i ponti, si lasciava libertà d’azione a quelli che ancora riponevano fiducia nel Bsi. Nel caso in cui quest’organismo avesse convocato una riunione, gli zimmerwaldiani avrebbero deciso quale atteggiamento tenere.
Lenin e la sinistra zimmerwaldiana furono molto concilianti su questa risoluzione, e la cosa si spiega assai facilmente: Lenin sapeva bene che, da questo punto di vista, il tempo lavorava per la sua posizione dato che i dirigenti del Bsi si sarebbero incaricati ben presto di distruggere ogni residua illusione degli esitanti. Ma, nonostante questo testo di compromesso, nei fatti a Kienthal venne affermata, ancor più che a Zimmerwald, la necessità di battersi per la costruzione di una nuova Internazionale. La sinistra zimmerwaldiana si rafforzò e si organizzò, dotandosi di una segreteria composta da Lenin, Zinov’ev e Radek, influenzando anche l’Internazionale dei giovani. I tempi erano ormai maturi e volgevano verso la rivoluzione in Russia e la nascita dell’Internazionale rivoluzionaria: e se questo processo storico poté compiersi, un grande merito va attribuito alle conferenze di Zimmerwald e di Kienthal, con la nascita, all’interno di quella che è stata definita la “Internazionale di Zimmerwald”, del raggruppamento di sinistra[50].
Verso una nuova Internazionale
Nonostante gli sforzi congiunti dei governi borghesi e dei partiti socialisti loro lacchè per tacerli, i nomi di Zimmerwald e Kienthal si fecero breccia nel movimento operaio e l’influenza delle due conferenze si estese ovunque, penetrando nel proletariato più o meno profondamente a seconda dei Paesi. «Fino a Zimmerwald, la vita politica e sociale era così spenta che era […] possibile precisare soltanto le rispettive posizioni dei socialisti e sindacalisti che avevano aderito alla guerra e dell’opposizione che manifestò contro di loro; vi era poco da raccontare, conferenze e riunioni erano rare e la censura proibiva di parlarne. Dopo Zimmerwald il movimento così a lungo trattenuto riprende vita e forza crescente. Bisogna riunire congressi, tenere conferenze, riprendere più o meno le pratiche tradizionali dei partiti e delle organizzazioni operaie; gli scioperi fino ad allora modesti colpivano la produzione bellica con un’ampiezza crescente»[51].
Il 1917 vide, sullo sfondo della carneficina della guerra, della fame, della miseria, il proletariato tornare a far sentire la propria voce con i primi scioperi in Inghilterra, il grande sciopero delle fabbriche di armamenti a Berlino, la “rivolta del pane” di Torino[52], lo sciopero generale in Spagna, l’ammutinamento di 40.000 soldati francesi, lo “sciopero militare” di quelli italiani. Erano le conseguenze delle sofferenze indotte dalla guerra: maturavano fermenti rivoluzionari. Nell’ottobre, infine, la rivoluzione in Russia e la presa del potere da parte del proletariato furono gli eventi che diedero un risalto ancor maggiore al problema centrale della costruzione dell’Internazionale. I bolscevichi, infatti, consideravano indissolubilmente legato l’esito della rivoluzione russa alle sorti della rivoluzione internazionale. Per questo Zinov’ev scriveva: «Fin dalla sua nascita la Terza Internazionale lega il suo destino a quello della rivoluzione russa»[53].
Un’Internazionale rivoluzionaria diventava, per un Paese arretrato come la Russia – con una classe operaia numericamente limitata, strangolato dall’accerchiamento controrivoluzionario imperialista – una questione strategica decisiva. I bolscevichi erano consapevoli che solo la propagazione della rivoluzione al continente europeo, e principalmente alla Germania, avrebbe potuto aiutare la giovane rivoluzione russa.
I detrattori e i superficiali considerano la Terza Internazionale come una “creatura” di Lenin, quasi uno strumento con cui il partito comunista russo controllava gli altri partiti che vi aderivano. Altri, invece, presentano la nascita della Terza Internazionale come effetto della rivoluzione, legata a questa in un rapporto meccanico. Entrambe queste letture sono ovviamente sbagliate e riduttive: il rapporto fra la rivoluzione e l’Internazionale fu molto più complesso e dialettico. Abbiamo visto che dopo il vergognoso crollo della Seconda Internazionale un composito movimento che ne denunciava il tradimento dei principi del marxismo iniziò a formarsi, mettendo all’ordine del giorno la nascita di una nuova Internazionale. Questo movimento, all’inizio debole e diviso, cominciò a prendere corpo con la conferenza di Zimmerwald fino a diventare, dopo una battaglia di demarcazione dagli elementi esitanti, l’asse portante della necessità storica di fondare la Terza Internazionale.
Del resto, già un anno prima di Zimmerwald, come abbiamo visto[54], Lenin le assegnò da subito, quando essa era solo un progetto nella testa di poche decine di rivoluzionari, il compito di organizzare le forze del proletariato per l’assalto al cielo. In questo contesto, è indubbio che l’Ottobre sovietico sia stato un elemento catalizzatore per il precipitare della nascita della nuova Internazionale. Ma non è sbagliato, d’altronde, in una lettura realmente materialistica della storia, ritenere che, proprio in virtù della dialetticità del rapporto, il procedere inarrestabile verso la nascita della Terza Internazionale possa aver accelerato la rivoluzione stessa, poiché l’Internazionale non era affatto un’aspirazione “etica” di chi la promuoveva, ma costituiva al contrario un reale movimento sociale di rottura rivoluzionaria[55]. Accusare, quindi, i bolscevichi di aver creato un loro fantoccio internazionale[56] non fa i conti con la loro stessa prudenza nel proclamarne formalmente la fondazione, che infatti avvenne solo nel 1919[57].
Nasce la Terza Internazionale, l’Internazionale rivoluzionaria
Ma, nei fatti, la Terza Internazionale esisteva già. Il 24 gennaio 1919, un mese e mezzo prima del suo congresso fondativo, Lenin scriveva: «Nel momento in cui la tedesca “Lega di Spartaco”, con dirigenti così illustri e noti in tutto il mondo, con difensori della classe operaia così fedeli come Liebknecht, Rosa Luxemburg, Clara Zetkin, Franz Mehring, ha rotto definitivamente i suoi rapporti con i socialisti del genere di Scheidemann e di Südekum, con questi socialsciovinisti […] che si sono disonorati per sempre a causa della loro alleanza con la brigantesca borghesia imperialistica di Germania e con Guglielmo II, nel momento in cui la “Lega di Spartaco” ha assunto il nome di “Partito comunista di Germania”, la fondazione della Terza Internazionale, dell’Internazionale comunista, realmente proletaria, realmente internazionalistica, realmente rivoluzionaria, è divenuta un fatto. Questa fondazione non è stata ancora sancita formalmente, ma di fatto la Terza Internazionale già esiste»[58]. E il 15 aprile 1919, un mese dopo il congresso fondativo, aggiungeva: «La Terza Internazionale è stata creata di fatto nel 1918, quando il processo di molti anni di lotta contro l’opportunismo e contro il socialsciovinismo, particolarmente durante la guerra, ha condotto alla formazione di partiti comunisti in parecchie nazioni»[59].
E fu proprio il congresso fondativo del marzo 1919[60] a stabilire con un’apposita risoluzione che, «sentito il rapporto della compagna Balabanova, segretaria del Comitato socialista internazionale, e dei compagni Rakovskij, Platten, Lenin, Trotsky e Zinov’ev, membri del gruppo di Zimmerwald, il I congresso dell’Internazionale comunista decide di considerare sciolto il gruppo di Zimmerwald»[61]. Ciò a riprova dell’importanza di quel raggruppamento, dell’importanza di quanto accadde a Zimmerwald, in cui Lenin incontestabilmente dominò: non – come abbiamo visto – perché sia riuscito ad imporre le sue posizioni. Anzi, si trovò sempre in minoranza. Ma Lenin sapeva che quella approssimativa riunione, organizzata tra mille difficoltà e con i governi borghesi e i partiti della Seconda Internazionale schierati contro, costituiva un raggruppamento rivoluzionario, rappresentava la base su cui fondare la Terza Internazionale. E allora lì condusse una battaglia fatta anche di compromessi (cosa che sfata il mito di un Lenin settario), ma sempre coerente con i principi del marxismo rivoluzionario, sempre tesa verso l’obiettivo della costruzione dell’Internazionale rivoluzionaria. In quello sconosciuto villaggio della Svizzera, insomma, si fece una parte rilevante della storia del movimento operaio. E lo aveva ben compreso anche Karl Liebknecht, che, detenuto in Germania, inviò questo saluto ai delegati della conferenza di Zimmerwald: «Sorgerà la nuova Internazionale, sorgerà sulle rovine della vecchia, su fondamenta nuove, più solide. A voi amici, socialisti di tutti i Paesi, sta di gettare oggi la prima pietra della futura costruzione. Giudicate implacabilmente i falsi socialisti! Fustigate quelli che tentennano e indugiano in tutti i Paesi, […] senza riguardi! Sulla ristrettezza e la grettezza del giorno, sulla miseria di questi atroci giorni, vi apparirà la grandezza della meta! Viva la futura pace dei popoli! […] Viva il socialismo internazionale, liberatore dei popoli, rivoluzionario! Proletari di tutto il mondo, tornate a unirvi!»[62].
Note
[1] Nell’accezione storicamente utilizzata nell’epoca cui si riferisce questo scritto per indicare le organizzazioni socialiste di orientamento marxista.
[2] Così, esplicitamente, G. Haupt, La Seconda Internazionale, La Nuova Italia, p. 17; L. Cortesi, Storia del comunismo, manifestolibri, p.96.
[3] Per una approfondita panoramica delle differenze fra i partiti socialisti che facevano capo alla Seconda Internazionale, G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Editori Laterza, vol. 3, t. 1, pp. 9 e ss.
[4] D’ora in avanti, così nel testo.
[5] G. Haupt, op. cit., p. 18.
[6] «La Seconda Internazionale … ha compiuto un grande lavoro culturale. Non c’è stato nulla di simile nella storia. Ha educato e unito le classi oppresse […] ha lasciato loro in eredità un ricco arsenale di idee … le armi della critica»: così L. Trotsky, “La guerra e l’Internazionale”, in Marxists Internet Archive, all’indirizzo https://tinyurl.com/y6syrork.
[7] Dalla risoluzione adottata nel Congresso di Zurigo del 1893: G. Haupt, op. cit., pp. 117–118.
[8] Ibidem.
[9] D’altronde, era proprio Marx a criticare «i difetti [di un] materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali, che esclude il processo storico» (K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Libro I, sez. IV, cap. 13, p. 415, nt. 89).
[10] Cit. da R. Anfossi, Le Internazionali (1864–1943). Storia di un’idea, Prospettiva Edizioni, p. 46.
[11] La discussione sul colonialismo costituì, come vedremo più avanti, un importante tema del Congresso di Stoccarda del 1907 della Seconda Internazionale.
[12] Una contraddizione, questa, solo apparente, ma che sarà poi alla base del fallimento della Seconda Internazionale.
[13] Il ruolo di Bernstein, dunque, fu quello di “tradurre in principi” quella che in effetti era una pratica opportunistica già consolidata. Come ebbe a scrivere efficacemente lo storico G.A. Ritter, «il “revisionismo” è solo un debole riflesso di questa molteplice prassi riformistica. Non gli Schippel, Bernstein, Heine, Calwer, e Hildebrand, ma i Vollmar, Grillenberger, Auer, Kloss, v. Elm, Legien, Leipart, Hué, Dr. Südekum, Ebert, Scheidemann, Keil e Labe, non gli accademici revisionisti dei “Sozialistischen Monatshefte”, ma i segretari del lavoro e i dirigenti sindacali, i consiglieri comunali e i deputati del Landtag, i portatori, in ultima analisi inattaccabili perché insostituibili, del lavoro politico di ogni giorno, determinavano il carattere del partito, che già prima del ’900 si era mutato essenzialmente in un lavoro pratico di partito con alcune frasi rivoluzionarie non prese sul serio».
[14] Disputa che prese il nome di Bernsteindebatte.
[15] R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, in Scritti politici, Editori Internazionali Riuniti, vol. I, pp. 163 e ss.
[16] Socialista francese che aveva accettato di entrare come ministro dell’industria nel governo borghese, giustificando il proprio atto con l’argomento che occorreva difendere la democrazia dalle minacce monarchica e bonapartista.
[17] Cit. da R. Anfossi, op. cit., p. 51. Giustamente, G.D.H. Cole, op. cit., p. 53, mette in luce l’importanza del ruolo che Kautsky ebbe nel predisporre una siffatta risoluzione, proponendo «un tipo di discorso che soddisfacesse il centro e disarmasse l’estrema sinistra, senza far uscire la destra dall’Internazionale e senza rendere insostenibile la posizione di Jaurès» (che aveva appoggiato Millerand).
[18] Cit. da G.D.H. Cole, op. cit., p. 63. Si veda pure A. Sagra, História das Internacionais socialistas, Editora Instituto José Luís e Rosa Sundermann, p. 27.
[19] L. Trotsky, op. cit., § VIII.
[20] Così, espressamente, G.D.H. Cole, op. cit., p. 75, che però rileva la contraddizione – che sarà poi alla base dell’affermarsi definitivo del revisionismo nella Seconda Internazionale – tra la condanna formale del revisionismo stesso e l’insistenza sull’unità socialista in ciascun Paese, il che significava l’impossibilità di espellere chi lo professasse. «Risultato del congresso di Amsterdam – conclude Cole – fu una maggiore unità, non una maggior disciplina».
[21] L. Trotsky, op. cit., § IX.
[22] Cioè la presa del potere per via della lotta rivoluzionaria e il rovesciamento del sistema capitalista con l’instaurazione di un governo dei lavoratori.
[23] Sul congresso di Copenaghen del 1910, così come sui precedenti congressi di Amsterdam (1904) e Stoccarda (1907) e sul successivo tenutosi a Basilea (1912), ci pare utile rinviare al dettagliatissimo resoconto di G.D.H. Cole, op. cit., p. 60 e ss.
[24] Cit. da R. Anfossi, op. cit., p. 57.
[25] L. Trotsky, La mia vita, Mondadori, 1961, pp. 177–178.
[26] Cit. da A. Rosmer, Il movimento operaio alle porte della prima guerra mondiale. Dall’Unione sacra a Zimmerwald, Jaca Book, pp. 87–88.
[27] Per un dettagliatissimo resoconto di questo viaggio e degli incontri che ne seguirono, A. Rosmer, op. cit., pp. 311–326.
[28] V.I. Lenin, “La guerra e la socialdemocrazia russa”, Opere, Edizioni Lotta comunista, vol. 21, p. 23.
[29] L. Trotsky, op. ult. cit., p. 184–185.
[30] È utile ripercorrere la parabola di Kautsky nella lucida analisi di Lenin, “Sciovinismo morto e socialismo vivo (Come ricostituire l’Internazionale?)”, Opere, vol. 21, pp. 83 e ss.
[31] L. Cortesi, op. cit., p. 119, sostiene che nelle posizioni kautskiane «c’era … molto gradualismo di sottofondo, senso della inesorabilità della guerra e “attendismo rivoluzionario” […] L’appariscente egemonia del marxismo ortodosso era semplicemente la maschera d’una deriva a destra e di una tendenza all’integrazione nazionale via via più nette».
[32] P. Frölich, Guerra e politica in Germania. 1914–1918, Edizioni Pantarei, p. 24.
[33] Per la caratterizzazione di Kautsky e del kautskismo come tradimento del marxismo non si può prescindere, ovviamente, dal noto pamphlet di Lenin, “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky” (Opere, vol. 28, pp. 231 e ss.). Si veda anche G. Lukács, “Il trionfo di Bernstein”, in Scritti politici giovanili 1919–1928, Casa editrice Laterza, pp. 177 e ss.
[34] Nel 1914 la socialdemocrazia tedesca contava più di un milione di iscritti, possedeva 89 quotidiani e riviste con un milione e mezzo di abbonati; in parlamento era rappresentata da 110 deputati, oltre ai 220 consiglieri provinciali e ai 12.000 consiglieri comunali; alle elezioni del 1912 aveva conseguito 4.250.000 voti pari al 35%. Dal canto suo, l’Internazionale socialista aveva quasi quattro milioni di iscritti in tutto il mondo, oltre sette milioni di iscritti a cooperative e oltre dieci milioni di iscritti a sindacati, con un bacino di circa dodici milioni di elettori (dati riferiti da P. Frölich, op. cit., p. 43).
[35] R. Anfossi, op. cit., p. 66. Così pure, P. Frölich, op. cit., pp. 64–66 e 81 (nt. 3). Riferisce A. Rosmer, op. cit., pp. 114 e 150 e ss., che analogamente le autorità francesi ottennero l’appoggio del Partito socialista e del sindacato Cgt assicurando che non sarebbe stato applicato il famigerato “Carnet B”, un elenco di circa 4.000 sindacalisti, rivoluzionari, socialisti e anarchici, che sarebbero stati arrestati preventivamente al minimo disordine o in caso di mobilitazioni. Secondo il più importante studioso della Seconda Internazionale, Georges Haupt, pur di fronte a imponenti manifestazioni operaie a Parigi, Berlino e Pietroburgo, «le direzioni dei partiti socialisti in Francia e in Germania mantenevano la consegna di essere prudenti […] In effetti la paura di prendere iniziative precipitate, di provocare azioni premature portò le direzioni dei partiti socialisti in un vicolo cieco […] I dirigenti socialisti si rifugiavano nell’attendismo […] Numerose circostanze dimostrano come i governi avessero compreso assai bene, verso la fine del luglio 1914, le carenze, le contraddizioni dell’Internazionale e dei partiti socialisti dei loro rispettivi paesi, i punti deboli della strategia pacifista […] i governi non credevano più da tempo alle minacce dei socialisti: una rivoluzione come conseguenza di una eventuale guerra europea» (G. Haupt, L’Internazionale socialista dalla Comune a Lenin, Giulio Einaudi editore, pp. 280 e ss.). Haupt spiega, inoltre, che sul finire di luglio il governo tedesco aveva invitato due dirigenti della Spd a un colloquio, all’esito del quale il cancelliere si era potuto rendere conto dell’autentico stato d’animo dei socialdemocratici, valutando la scarsa consistenza della loro risolutezza. Dopo quest’incontro, «il governo ormai sapeva per certo che la Spd era diventata un’opposizione attiva ma leale, che non doveva temere la sua resistenza in caso di proclamazione della mobilitazione generale» (op. cit., p. 286). Lo conferma P. Frölich (op. cit., p. 64) citando un dispaccio inviato il 31 luglio dal ministero della Guerra al comando generale, che recitava: «Secondo informazioni precise e confermate, il partito socialdemocratico ha intenzione di comportarsi nella situazione attuale come si conviene a ogni tedesco. Ritengo mio dovere comunicarvelo, perché i comandanti militari tengano in considerazione questo elemento nel momento in cui dovranno adottare dei provvedimenti».
[36] Esemplare in questo senso – come racconta A. Rosmer, op. cit., pp. 109–110 – fu l’atteggiamento tenuto in Francia dal Partito socialista e dal maggior sindacato, la Cgt, che sciolsero le manifestazioni spontanee di lavoratori che protestavano contro l’assassinio di Jaurès minacciando di farsi giustizia da soli. Da sottolineare, al riguardo, quanto cita V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, Edizioni e/o, p. 59: l’avvocato Zévaès, socialista, assunse la difesa legale dell’assassino di Jaurès. Indubbiamente, un segno dei tempi! Né va sottaciuta, per restare in terra francese, la parabola – particolareggiatamente descritta da Rosmer (op. cit., pp. 94 e ss.) – dell’organo della Cgt, Bataille syndicaliste, che gradualmente, a partire dal 2 agosto 1914, iniziò una deriva che lo porterà a schierarsi dalla parte della borghesia. Anzi, a diventarne uno degli organi di stampa.
[37] G. Haupt, op. cit., pp. 264 e ss., sostiene con dovizia di argomenti che la categoria del “tradimento” risulta inefficace per spiegare le ragioni del suo crollo, aggiungendo che l’incapacità dell’Internazionale di far fronte alla guerra «derivava da tutte le sue contraddizioni, dalle fondamenta e dalle debolezze teoriche di una strategia preventiva che guidava le modalità concrete dell’atteggiamento e della politica socialista». Quest’analisi riprende quella di G. Lukács, Lenin, Boitempo editorial, p. 61, secondo cui «i posizionamenti delle diverse correnti socialiste nell’agosto del 1914 furono la conseguenza diretta e oggettiva delle loro precedenti posizioni teoriche e tattiche». Lukács, in particolare, sostiene che «il posizionamento della socialdemocrazia in relazione alla guerra non fu la conseguenza di un errore (momentaneo), di un atto di codardia, ecc., ma una conseguenza necessaria della sua precedente evoluzione» (op. cit., p. 71).
[38] «Il fallimento della socialdemocrazia tedesca, la ignominia gettata sul proletariato tedesco [e] sul socialismo per quanto repentina fosse la sua manifestazione, era il punto di arrivo di un lungo processo. E per molti versi la fine di un equivoco. La socialdemocrazia non [era] mai stata un partito marxista, se considerata nel suo insieme, quantunque i marxisti rivoluzionari vi [avessero] trovato posto»: C. Olivieri, Gli spartachisti nella rivoluzione tedesca (1914–1919), Prospettiva edizioni, p. 18.
[39] L. Trotsky, op. ult. cit., p. 200.
[40] V.I. Lenin, “La guerra e la socialdemocrazia russa” cit., pp. 24–25.
[41] V.I. Lenin, “La situazione e i compiti dell’Internazionale socialista”, Opere, vol. 21, p. 32. G. Lukács (op. cit., p. 75) teorizza così la scelta della sinistra rivoluzionaria: «L’Internazionale è l’espressione organica della comunità di interessi del proletariato mondiale. Nel momento in cui si riconosce come teoricamente possibile che lavoratori lottino, al servizio della borghesia, contro altri lavoratori, l’Internazionale cessa di esistere nella pratica. E nel momento in cui diventa evidente che questa lotta sanguinosa tra lavoratori a tutto vantaggio delle potenze imperialiste rivali è una conseguenza necessaria del precedente comportamento di elementi decisivi dell’Internazionale, non si può più parlare di un recupero di questa, di riportarla sulla retta via, di un suo risanamento. Riconoscere l’opportunismo come corrente significa denunciarlo come il nemico di classe del proletariato nel suo stesso campo. L’estirpazione degli opportunisti dal seno del movimento operaio è, pertanto, la condizione primaria, indispensabile per la lotta vittoriosa contro la borghesia».
[42] Recatosi a Parigi per chiedere a Vandervelde, presidente della Seconda Internazionale, la convocazione di una conferenza socialista internazionale sul tema della guerra, Morgari si scontrò col netto rifiuto da parte del Bsi. L’incontro si concluse con la promessa di autoconvocazione da parte di Morgari e la minaccia di Vandervelde di impedirne la realizzazione. «Il dibattito è finito. Non c’è più nulla da dire. Le posizioni sono prese, irriducibili. Ma la conferenza socialista internazionale avrà luogo egualmente. Si riunirà malgrado Vandervelde e contro di lui»: così A. Rosmer (op. cit., p. 371) conclude il suo dettagliato resoconto dell’incontro di Parigi.
[43] L. Trotsky, op. ult. cit., p. 214.
[44] A. Rosmer, op. cit., p. 385.
[45] Ibidem.
[46] V.I. Lenin, “Un primo passo”, Opere, vol. 21, p. 356.
[47] V.I. Lenin, “I marxisti rivoluzionari alla conferenza internazionale socialista del 5–8 settembre 1915”, Opere, vol. 21, pp. 358 e ss.
[48] Così A. Rosmer, Il movimento operaio durante la prima guerra mondiale. Da Zimmerwald alla rivoluzione russa, Jaca Book, pp. 95–96.
[49] Nel febbraio-aprile 1916 Lenin scriveva: «Nel mondo intero vi sono ora, di fatto, due partiti. Le Internazionali sono ora di fatto già due. E se la maggioranza di Zimmerwald ha paura di riconoscerlo, sogna l’unità coi socialsciovinisti, dichiara di essere pronta ad accettare una simile unità, questi “pii desideri” rimangono, in realtà, soltanto desideri, espressione dell’incoerenza e della pavidità del pensiero. La coscienza è in ritardo rispetto all’essere» (V.I. Lenin, “Scissione o imputridimento?”, Opere, vol. 22, p. 180). Ma già nel marzo 1916 (La conferenza di Kienthal, Opere, vol. 41, p. 467) aveva sostenuto: «In tutto il mondo la scissione già esiste di fatto, e gli zimmerwaldiani, se chiudono gli occhi su questo dato, ne ricavano soltanto un danno, perché si rendono ridicoli dinanzi alle masse, le quali sanno molto bene che ogni passo del loro lavoro nello spirito di Zimmerwald implica un’estensione e un approfondimento della scissione. Bisogna avere il coraggio di riconoscere apertamente l’inevitabile e il fatto compiuto».
[50] V. precedente nota 47 e il testo cui essa si riferisce. V. anche G.E. Zinov’ev, La formazione del partito bolscevico. 1898–1917, Graphos, p. 156.
[51] Così A. Rosmer, op. ult. cit., p. 19.
[52] Che, a dispetto della denominazione, fu invece una vera e propria insurrezione contro il governo e assunse un chiaro carattere antimilitarista: v. al riguardo, R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne in Italia, Savelli editore, vol. 3, pp. 40–53.
[53] Cit. da A. Sagra, op. cit., p. 41.
[54] V. nota 41.
[55] Non va dimenticato che, nell’aprile 1917, nel pieno della crisi rivoluzionaria, Lenin, appena rientrato in Russia col famoso treno blindato, si preoccupò con le Tesi d’aprile di riorientare la politica del suo partito (in quel momento oscillante) ponendo al centro del programma per la fase rivoluzionaria il seguente punto: «Rinnovare l’Internazionale. Prendere l’iniziativa della creazione di un’Internazionale rivoluzionaria contro i socialsciovinisti e contro il “centro”» (V.I. Lenin, “Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale”, Opere, vol. 24, p. 14). Dunque, come si vede, la fondazione di un’Internazionale rivoluzionaria era considerata uno strumento indispensabile per la rottura rivoluzionaria.
[56] Come invece sarà poi l’Internazionale completamente stalinizzata, fino a diventare docile strumento nelle mani della cricca burocratica staliniana per il controllo del movimento operaio internazionale.
[57] D’altronde, come segnala A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori riuniti, vol. 1, p. 16, «l’egemonia dei bolscevichi nel Comintern era […] riconosciuta e accettata come legittima: frutto non già di una volontà di prevaricazione dei comunisti russi ma della dialettica del processo storico».
[58] V.I. Lenin, “Lettera agli operai d’Europa e d’America”, Opere, vol. 28, pp. 434–435.
[59] V.I. Lenin, “La Terza Internazionale e il suo posto nella storia”, Opere, vol. 29, p. 279.
[60] Sul congresso di fondazione della Terza Internazionale, oltre al lavoro di A. Agosti richiamato nella precedente nota 57, può essere utile riferirsi a P. Broué, História da Internacional comunista, Editora Instituto José Luís e Rosa Sundermann, vol. 1, pp. 91 e ss.; J. Degras, Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, Feltrinelli editore, vol. 1, pp. 13 e ss.; E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917–1923, Giulio Einaudi editore, pp. 906 e ss.; G.D.H. Cole, op. cit., vol. 4, t. 1, pp. 333 e ss.; A. Agosti, Le correnti costitutive del movimento comunista internazionale, in Storia del marxismo, a cura di E.J. Hobsbawm et al., Giulio Einaudi editore, vol. 3, t. 2, pp. 329 e ss.
[61] Assalto al cielo. Documenti e manifesti dei congressi dell’Internazionale comunista (1919–1922), Giovane Talpa, p. 46. La risoluzione è riportata anche da A. Rosmer, Il movimento operaio durante la prima guerra mondiale. Da Zimmerwald alla rivoluzione russa, cit., p. 11.
[62] Cit. da A. Rosmer, Il movimento operaio alle porte della prima guerra mondiale. Dall’Unione sacra a Zimmerwald, cit., p. 557.